Rivelazioni!
La vera, incredibile storia di tanti personaggi leggendari. Da Poirot a Miss Marple, Da Sherlock Holmes a Nero Wolfe, da Philo Vance a Perry Mason…
Sono stato incerto fino all’ultimo. La cosa è troppo grossa per essere creduta. Soprattutto da uno che si diverte a scrivere satirette e pezzi come “Che bella famiglia!”, oppure “Diario mediocre del solito giallista scacchista…” con quel che segue. Insomma da uno poco serio, poco credibile. Mi mangerei le mani per non essere stato sempre preciso, compito, tutto d’un pezzo, una personcina affidabile alla quale credere…credere anche alle cose più assurde e impossibili. Come questa.
Sputo il rospo anche se già vi vedo pronti a storcere la bocca e scuotere la testa. Ho ricevuto delle rivelazioni. Più precisamente delle lettere. Ma non le solite lettere che si ricevono tutti i giorni dai parenti, dagli amici o dalla fidanzatina di turno. Voglio dire, è incredibile… ho ricevuto delle lettere da certi personaggi famosi del romanzo poliziesco! Un bel pacco di lettere infiocchettate che mi ha portato un tizio dall’aspetto misterioso (sembrava Babbo Natale) e che ribaltano completamente certi giudizi.
Qualcuno già si alza e se ne va, qualcuno rimane con evidente espressione di compatimento nei miei confronti. Facciamo in questo modo. Ascoltatemi e poi alla fine subissatemi pure di fischi o tiratemi quello che vi capita fra le mani.
Sono lettere così commoventi e nello stesso tempo così piene di risentimento, di odio e di rimpianto che mi hanno commosso e sconvolto allo stesso tempo. Non so per quale motivo i loro autori abbiano scelto proprio il sottoscritto come destinatario ma le vie del Signore sono infinite. Mi hanno anche pregato di leggerle e di far conoscere il loro contenuto ai lettori di questo blog e le vie del Signore sono ancor più infinite. Un giorno, se Mauro o Luca mi daranno una mano (il mio inglese beccheggia come un’anatra zoppa), potremo anche pubblicarle.
Sono lettere firmate. Vedi quella di Poirot. Avete capito bene. Proprio lui, quel tipetto bassotto pienotto, con i baffetti ben curati, i guanti, le ghette, il bastone sempre dietro, quello delle celluline grigie, insomma, l’infallibile investigatore creato dalla immaginifica penna della Christie. Un’arpia, una strega, un tiranno. No, non sono io che lo dico. E’ Poirot stesso che lo ripete in continuazione. Lui per natura disordinato, per non dire caotico, costretto ad essere sempre preciso, stirato, impomatato e lucidato a puntino. Lui, un uomo del tutto normale, ridotto ad un mezzo omuncolo con la testa d’uovo! Le pare che abbia la testa d’uovo? mi ha chiesto evidentemente stizzito, accludendo una sua foto alle lettera. E non c’è da dargli torto. Tra l’altro è pure senza baffi. E non è nemmeno belga. Un italiano, Porro, storpiato malignamente, dice lui, in Poirot. Un italiano che tra le varie stupidaggini inventate non patisce il freddo, e che, e qui tralascio la sequela di insulti per la nostra Agatha, ama appassionatamente le donne. Tra le quali figura, figura…Miss Marple!
No, non andate via anche voi, lo giuro (tra l’altro pensate di trovare qualcosa di meglio in giro?), sì proprio Miss Marple che non è la vecchietta simpatica che abbiamo conosciuto ma uno schianto di figliola da far strabuzzare gli occhi (foto docet), costretta dall’arpia, gelosa fradicia, a truccarsi e trasformarsi in grinzosa zitella. La sera, dopo il lavoro, dopo il supplizio, si incontravano per dare libero sfogo alla loro passione. E questo fatto è confermato dalla stessa Miss Marple, nome vero Lucia Marpalò, anche lei italiana, nella sua lettera, votata alle umiliazioni più penose come a ciangottare di continuo con delle moriture, per non perdere il posto di lavoro in un momento di gravi difficoltà economiche.
L’ultima parte è davvero commovente. Una confessione dolorosa e difficile che deve essergli costata molto. Poirot non era quell’infallibile genio che abbiamo conosciuto, quell’ingegno mostruoso che scioglieva gli enigmi più incredibili e complessi. Poirot aveva un suggeritore! Sì, proprio un suggeritore nascosto nel punto giusto dalla “strega” che sbrogliava tutte le matasse poliziesche e lui a ripetere come un allocco. A volte non c’era nemmeno bisogno del suggeritore perché la storia, insinua malignamente Poirot, era così scombinata che poteva andar bene qualsiasi soluzione. E non deve avere avuto neppure troppo torto se un famoso scrittore, a proposito di “Assassinio sull’Oriente Express”, scrisse che solo un deficiente, o giù di lì, avrebbe potuto scoprire chi era l’assassino.
Un’altra lettera è di Nero Wolfe. Di quell’omone grande e grosso uscito fuori a stento (battutina extra) dalla penna di Rex Stout. Dice subito che ha vomitato più lui degli antichi romani al vomitorium, e che quello stupido di un Fritz non era per niente il cuoco invidiabile descritto dall’autore, ma un rimescolatore di brodaglie da strapazzo. Che le favolose le frittelle mattutine, le salsicce di mezzanotte, lo stufato d’anatra ripiena e perfino l’insalata brasiliana gli procuravano immancabilmente una stressante diarrea. Una volta erano arrivati perfino alle mani e aveva ricevuto una coltellata ad un braccio su cui portava ancora i segni.
Le orchidee non lo interessavano manco pe’ gnente (tradotto un po’ alla paesana), mentre subiva una attrazione particolare per il girasole così allegro, così illuminante, ed anche per il giaggiolo senza una spiegazione precisa. C’erano state lotte furiose con l’autore ma alla fine l’aveva vinta lui, con la promessa che qualche volta lo avrebbe fatto uscire dalla sua casa, dalla quale non lo faceva muovere di un passo. Il lavoro gli piaceva, questo è vero, ma invidiava soprattutto gli investigatori dell’hard boiled che potevano scorrazzare in giro a loro piacimento tra cazzotti e pistolettate. Una volta si era messo perfino in contatto con uno di quei personaggi scapestrati che tanto lo entusiasmavano, un certo Sam Spade che gli aveva promesso una parola buona con il suo autore. Scoperto da Archie Goddwin era stato preso per il bavero e riportato di forza, seppure con fatica, all’ovile. Era solo lui, lui solo, gli disse in tono minaccioso che doveva fare quello che facevano quelli dell’hard boiled. Nero Wolfe in poltrona a ponzare, zitto e mosca. E così è trascorsa la sua vita fra orchidee, Fritz, Goodwin e poltrona, appunto.
Ho ricevuto due lettere complementari: una di Sherloch Holmes e una di Watson. Riassumo per non farla troppo lunga. Sherlock Holmes nella vita non voleva fare certo il protagonista di gialletti da strapazzo. Semmai l’eroe in uno di quei romanzoni belli tosti di guerra e amori impossibili che rimangono impressi per una miriade di anni nell’animo di dolci, ammalianti fanciulle. Costretto a forza con la droga (da qui l’uso della cocaina) dall’autore ad interpretare un ruolo che non sentiva suo. Non sopporta, non ha mai sopportato il violino, strumento da fighetti, ma ha sempre avuto una passione sviscerata per il tamburo. Da ragazzo stamburate da tutte le parti e una notte in gattabuia per avere tenuto sveglio l’intero quartiere. Falsa la celebre frase “Elementare, Watson!”, inventata ad arte da Doyle solo per infondergli un’aura di infallibilità. La sua espressione nei momenti cruciali era ben altra “Ora so’ cavoli amari, Watson!” (traduzione edulcorata), per dire che l’incertezza era il suo campo di battaglia. Alla forca tutti gli imitatori successivi che lo hanno preso in giro o fatto diventare un pacioso apicultore.
Il dottor Watson, a sua volta, è di umore nero, nerissimo, per avere dovuto interpretare sempre la parte del bischero, della spalla, lui portato ad essere il personaggio principale. Suo udito stravolto dalle strampalate note del violino stonato e dalle strampalate deduzioni dello spilungone che mandavano in visibilio una turba ammaliata di lettori allocchi. Costretto, a volte, ad interpretare altre figure di contorno e perfino il famoso mastino di Baskerville in un momento di penuria di attori (non c’era un cane che volesse fare quella parte). E qui ha emanato, pardon scritto, una specie di struggente guaito che mi ha rimescolato il sangue.
Philo Vance si lamenta di essere stato trasformato in un personaggio di discendenze nobiliari, colto e raffinato, mentre per sua natura era portato più ai modi spicci e naturali dei campagnoli. Di nascosto la notte a bettole e puttane. Fiumi di birra e rutto libero alla Fantozzi, seguito da qualche mitragliata nelle parti basse (traduzione piuttosto libera e modernizzata). Gli scacchi, poi, adatti a smidollati perditempo buoni a nulla. Al che mi sono piuttosto incacchiato e ho in mente di rispondergli per le rime. Anche se non ho ancora trovato la risposta giusta…
Aria! Aria! Aria! grida di continuo Henry Merrivale, il Vecchio di Carr, come se fosse sotto un attacco di asma. E tutta la lettera dà l’idea di uno fuori di testa che ripete sempre le stesse cose con una novità assoluta: il delitto della camera aperta. Il suo autore non ne ha mai voluto sapere, costringendolo ad estenuanti soggiorni in camere chiuse, ed ora il Vecchio la propone alle generazioni di questo secolo. Un delitto in una casa con porte e finestre aperte dove circoli un’aria almeno respirabile per chi deve condurre le indagini e dove l’assassino venga visto mentre compie il misfatto. Un’idea nuova, originale, geniale, punteggiata da “Arconti di Atene!”. Milionate e milionate di copie vendute. Dice lui. E non c’è da dargli torto, dico io, che le stronzate oggigiorno (ma forse è stato sempre così) vendono più dei capolavori.
Philip Marlowe ce l’ha a morte con l’autore che lo faceva fumare di continuo. Ha scritto una lettera pietosa da un ospedale (non stiamo a sottilizzare, eh!) dove è in cura per un cancro al polmone. Manda un saluto a tutti e ci prega di ricordarlo. Gli risponderò di stare tranquillo che il suo nome vincerà di mille secoli il silenzio. E non mi pare poca cosa, visto il poetico accostamento.
Lo stesso dicasi per Duncan Maclain, l’investigatore cieco di Baynard Kendrik, che ci vedeva benissimo ed era costretto a girare le scene fantasiose del suo autore con una benda sugli occhi. Per entrare meglio nel personaggio, secondo Baynard. Al suo attivo una trentina di riferimenti variegati da primo posto al Festival Internazionale degli Insulti. Dove “abita” ora può vedere all’opera un bel po’ di campioni del gioco degli scacchi che ha sempre amato con i loro tic e le loro manie che si portano appresso. Fischer fa un casino del diavolo per la scacchiera che non gliene va bene una, la luce troppo forte o troppo debole, il pubblico troppo vicino o troppo lontano e insomma un bel rompipalle; Lasker avvelena tutti con il suo sigaro pestilenziale e sbuffa di continuo “Lotta, sempre lotta, fortissimamente lotta!”; Tal ipnotizza i suoi avversari con lo sguardo dei suoi occhi diabolici e sulla scacchiera sacrifici a go-go; Blackburne gira mezzo ubriaco fra i tavoli e arraffa tutti i liquori a portata di mano; Steinitz ha sfidato perfino Dio su dieci partite e insomma intelligenti, mah, strani parecchio, di sicuro.
Padre Brown si lamenta, invece, di non essere stato una vera, genuina creatura del favoloso intelletto di Chesterton, un personaggio, cioè, compiutamente inventato e non una fotocopia di un essere esistente come Padre John O’ Connor di Bradford, al quale manda subito un paio di sentiti accidenti per quel viso rotondo e inespressivo come gnocchi di Norfolk e gli occhi incolori come il mare del Nord. Almeno l’autore avesse scelto un esemplare umano di un certo fascino! E invece si ritrova ad essere un pretucolo da strapazzo imbranato fradicio con l’ombrello che gli casca perennemente fra i piedi. Una macchietta, solo una macchietta! E giù altri accidenti che in bocca ad un religioso mi hanno creato, devo dire, un certo imbarazzo.
Perry Mason sbuffa e risbuffa di non avere mai potuto intessere una relazione amorosa con Della Street, di cui era innamorato pazzo. Solo rapporti di lavoro, mentre lui si ingrifava (mio conio) non appena la vedeva ancheggiare con il lato B bello sodo, e l’avrebbe pure inchiappettata (dovrò consultarmi con Mauro e Luca) anche durante il controinterrogatorio di un teste reticente. Qui non ho potuto edulcorare niente e speriamo in un momento di distrazione del responsabile.
Insomma ho fra le mani una interminabile sequela di lettere esplosive che faranno saltare sulla sedia i lettori del mondo letteral-giallistico. Ne cito soltanto altre due per non farla troppo lunga. In primis quella del famoso Maigret che si lamenta di una vita insipidamente grigia insieme alla signora Maigret, appunto, e dei quintali di birra che gli ha fatto ingurgitare l’autore. Conseguenza prostata da mongolfiera e corse interminabili al gabinetto. Per seconda quella di Charlie Chan, il cicciottello ispettore di Honolulu, stressato dalla ricerca disperata di proverbi e aforismi vari con i quali condire le sue indagini. Non aveva un attimo di tregua e doveva tirarli fuori anche di notte per finire freschi freschi al mattino sulle pagine dell’autore. Dalla scrittura zigzagante e da tutto il contesto del discorso si evince uno stato mentale decisamente alterato.
L’unico soddisfatto in questa trenata di musi lunghi e volti paonazzi è John Evelyn Thorndyke che si crogiola beato nella sua bellezza apollinea, o quanto sono bello, o quanto sono fascinoso e come me non c’è nessuno. Bello e scientifico con quella sua valigetta verde sempre appiccicata dietro e dunque mi prega di ricordarlo ai lettori, qualora se ne fosse dipartita la memoria. Insieme al suo creatore, Richard Austin Freeman che, smack smack smack, se lo bacerebbe tutto! Anche per quell’inverted story, una robetta mica da poco nell’ambito della letteratura poliziesca. E insomma ricordateci, ricordateci, ricordateci e allora me lo segno, seppure con un po’ di stizza che a me non mi ricorda nessuno (alla paesana).
Tutte le lettere, ad eccezione di quest’ultima, sono un miscuglio di rabbia, invettive e rimpianto di noti personaggi, per non essere stati riconosciuti per quello che erano. Una lotta continua con gli autori che li tiranneggiavano ed umiliavano. Li rendevano ridicoli con i loro tic, le loro stupide manie inventate per attirare l’attenzione del lettore e vendere di più. I personaggi letterari, e il romanzo poliziesco è letteratura, hanno diritto ad essere rispettati per quello che sono e nessuno deve modificare la loro natura.
Questo è il messaggio principale. Il sottoscritto l’ha recepito e comunicato in questo blog. Ed è tutto vero, giuro, cascassero le palle a quelli che non mi credono.
Fabio e Jonathan Lotti
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febbraio 12th, 2012 at 23:48
Strano, non mi cascano..
Divertente, veramente divertente. Povero Philo Vance, però…
Il fatto interessante è che Rex Stout sul serio ne sapeva di cucina, non cosette: era un vero gaudente!
Anni fa (quttro-cinque, non ricordo con esattezza) uscì un bel volume della Sonzogno (non so se sia ancora disponibile), con le ricette di Rex Stout: una montagna di ricette. Alcune è bene dirlo, mi parvero di difficile esecuzione.
Gli scritti erano tradotti da Igor Longo. Insomma un modo come un altro per conoscere l’altra vita di un genio come Rex Stout
febbraio 13th, 2012 at 09:49
Per essere corretto devo dire che ho ripreso qualche spunto da una mia intervista a Poirot su “Corpi freddi”. Ne approfitto per salutare Enzone.
febbraio 13th, 2012 at 18:08
un saluto allora!
febbraio 13th, 2012 at 18:56
Secondo me hai dimenticato il miglior investnziniigatore-giallista di sempre: Ellery Queen.
Tutto questo solo per salutarti e dirti che aspetto l’uscita del tuo quarto giallo!!!
febbraio 13th, 2012 at 19:34
Hai pubblicato queste scottanti lettere…avrai fatto la cosa giusta? Oppure avrai gli stessi dubbi di Turner (Robert Redford) nella scena finale de “I tre giorni del condor” (1975, Sydney Pollack), quando incontra Higgins (Cliff Robertson)che ha appena saputo che la storia di “Condor” era stata consegnata al “New York Times”.
(Tra l’altro una scena davvero molto attuale, quasi profetica)
Complimenti per le rivelazioni!
febbraio 13th, 2012 at 20:32
Molto divertente, come sempre…
febbraio 13th, 2012 at 22:09
Anche se Off Topic (Dario me la farà passare, credo), segnalo che sull’ultimo numero di Musica Jazz in edicola, c’è una bella intervista di di Franco Bergoglio a Kevin Burton Smith (un esperto di Noir )a riguardo del tema: “Il Jazz nei Gialli? Un falso storico”; e un bell’articolo di Luca Conti: “Raymond Chandler, creatore di miti”.
Per chi non lo sapesse, da qualche tempo, Luca è il nuovo Direttore Editoriale di Musica Jazz.
febbraio 14th, 2012 at 09:18
Un saluto a tutti, specialmente a chi viene da altri lidi scacchistici.