Intervista a Marzia Musneci
A cura di Vincenzo Vizzini
Anche questa edizione del Premio Tedeschi si è conclusa portando alla luce una scrittrice di talento che ha saputo costruire una trama decisamente attuale, dando vita a un investigatore che ricorda un po’ il meglio di Maigret e di Marlowe, ma fusi in un personaggio attuale e intriso di ironia e sensibilità, in uno stile filante che prende il lettore già dalle prime battute, lasciandolo senza respiro e con un unico obbiettivo: leggere la parola fine.
Ciao Marzia, come ci si sente a far parte dei vincitori del Premio Tedeschi, il più importante premio del giallo?
Non ti stupirò per niente: ci si sente splendidamente. Finirò in un Albo d’Oro insieme a nomi che sono un mito per una maniaca di gialli come me. Solo che è un po’ scomodo: il mondo non è fatto per quelli che vivono a venti centimetri da terra. Prima o poi scendo, promesso.
Quando non scrivi fai qualcosa per guadagnarti da vivere?
Lavoro in un Assessorato allo Spettacolo, dove mi occupo di organizzare eventi per il divertimento della gente.
So che questo non è il tuo primo romanzo, come sei arrivata al mondo della scrittura? Che esperienze hai fatto?
Scrivo da quando ho imparato a farlo, ma ho sempre tenuto tutto nel cassetto. Nessuno al suo posto è stato il primo tentativo di costruire una storia “gialla”. Una delle cose che amo di più, nel genere, è la sostanziale “onestà” di chi scrive. Il lettore deve avere a disposizione tutti gli elementi per capire. Inserirli, ma fare in modo che tutti i conti tornino soltanto alla fine, è qualcosa che somiglia a un gioco di prestigio, ed è dannatamente divertente. Un’altra è che, attraverso un romanzo di genere, si può parlare di tutto. Nessuno al suo posto, per esempio, ha un tema importante, su cui ci sarebbe bisogno di più informazione. Un giallo, o anche un romanzo di fantascienza, ti consente di mettere il dito nella piaga, e di farlo in maniera avvincente. E poi, conosci un altro sistema per uccidere qualcuno in modo socialmente accettabile? La mia scuola è stata la lettura, tanta lettura. Leggo in maniera quasi ossessiva, non esiste giorno in cui io non legga qualcosa. L’esperienza in teatro, probabilmente, mi ha aiutata nei dialoghi e nella costruzione dei personaggi. Lingua e personaggio hanno un legame stretto che il teatro aiuta a capire.
Se dovessi guardare al tuo primo romanzo, cos’è cambiato da allora?
L’ho riletto recentemente. Sono di quelli che, se esistessero ancora le rotative, ci ficcherebbero le mani per spostare l’ultima virgola… l’ultima, giuro. Perciò, per quanto sia affezionata all’opera prima, qualcosa cambierei, certo. Perché nel frattempo, a “mai un giorno senza leggere” si è aggiunto “mai un giorno senza scrivere”. E scrivere con costanza aiuta tantissimo. Frequento un sito di scrittura con lettori/autori deliziosamente implacabili. Un’autentica palestra dove si imparano molte cose e nascono molte idee. Con loro ho affrontato anche un romanzo a dieci mani. Una vera follia, ma una grande esperienza, sia umana, sia di scrittura. Spero di essere cresciuta, in Doppia indagine. Saranno i lettori, a dirlo.
Il tuo rapporto con Mondadori? Com’è lavorare con un editore di questo calibro?
Bisognerebbe piuttosto chiedere a Mondadori com’è lavorare con una fissata come me. Intanto ho avuto a che fare per la prima volta con un editor, e siamo andati d’accordo. L’editing è stato insieme delicato e competente. E soprattutto paziente. Che geni deve avere Cristina Magagnoli per sopportare due ore e un quarto di telefonata sugli apostrofi e le virgole di una ventina di righe in romanesco da verificare puntigliosamente? Comunque è entusiasmante lavorare insieme per far uscire il miglior prodotto possibile. Inoltre la collana del Giallo Mondadori ha una diffusione strepitosa. Pensare che tantissime persone leggeranno la storia di Montesi mi entusiasma.
E dei lettori cosa mi dici?
Ho fatto diverse presentazioni di Nessuno al suo posto, e si sono sempre risolte in sfrenate chiacchierate sul giallo e sulle tecniche di scrittura. Doppia indagine non è ancora uscito, perciò non l’ho ancora presentato a nessuno, ma non vedo l’ora.
Secondo te che cosa ha fatto di Doppia indagine, un giallo vincente?
La storia, spero. Mi piace moltissimo leggere belle storie, solide. Ho provato a scrivere qualcosa che mi sarebbe piaciuto leggere.
Quali sono stati i tuoi modelli di riferimento? Nel testo accenni a Maigret e Chandler, un omaggio?
Ci manca poco che sappia a memoria Il grande sonno, Il lungo addio, Il falcone maltese. Sono cresciuta a pane e Chandler, a pane e Hammet. Ho letto più volte i libri e visto più volte i film tratti dai libri. Nessuno al suo posto, nella prima intenzione, doveva essere un’affettuosa, innamorata parodia del grande Chandler. Ma poi la storia mi ha preso la mano ed è diventata altro. Anche Matteo Montesi ha reclamato indipendenza dal modello. Ho scoperto che scrivendo si possono pagare molti debiti. I miei li pago volentieri. A Chandler soprattutto. Ma anche al cinema. C’è molto cinema, in Doppia indagine. Citazioni a volte esplicite e a volte no. Sarebbe divertente provare a individuarle.
Come hai lavorato per costruire la trama del romanzo? Sei partita dai personaggi, dal movent,e oppure ti sei concentrata sul punto d’arrivo.
L’idea per una storia può venire dalle cose più impensate. All’origine di Doppia indagine c’è una collana molto particolare che ho visto diversi anni fa in una vetrina. Deve avermi colpito tantissimo, perché sono una che s’incanta davanti a una libreria, piuttosto che davanti a un gioielliere. Ma queste cose danno l’input, il calcio d’inizio. Come si costruisce una storia è mistero che ancora mi affascina. Diciamo che ho un’idea delle cose di cui voglio parlare, di alcuni personaggi che ho voglia di raccontare. Quando inizio a scrivere ho uno schema molto scarno. Poi, a un certo punto, la storia comincia quasi ad andare da sola, i personaggi ad agire secondo una loro logica. La credevo una cosa strana, finché non ho scoperto che succede lo stesso a molti scrittori. Lascio liberi i personaggi di agire, fino al momento in cui è necessario far loro capire chi comanda. Chissà se anche con questo c’entra il teatro.
Quanto tempo ha richiesto la scrittura di Doppia indagine?
Scrivo nei week end e in vacanza. La prima stesura mi ha preso circa quattro mesi. Altri otto mesi mi sono serviti per rivedere, pulire, precisare dettagli, centrare parole; per illuminare un passo e metterne in ombra un altro. E soprattutto tagliare, scavare. È un lavoro che mi piace moltissimo. Da quando ho scoperto che piaceva anche a Carver mi sento meglio.
Perché hai scelto Roma e i suoi dintorni?
“Parla delle cose che conosci”, dice la grande Mrs. Highsmith. Sono nata e vissuta a Roma, lavoro ai Castelli da parecchio tempo. Inoltre mi piaceva ambientare il delitto in un contesto sereno, in un paesaggio dolce, fra gente “quieta”. Il contrasto è una carta vincente, secondo me. Del resto, tutto ormai arriva dappertutto, i rifugi non esistono.
Preferisci il noir sottile o quello crudo?
Ti rispondo da lettrice onnivora: tutti e due. Se la storia è ben costruita e ben scritta, mi piace. Mi piace Poirot a Styles Court e mi piace Buio, prendimi per mano di Lehane, o Arrivederci amore ciao di Carlotto. Amo quando un intreccio mi tuffa in ambienti e culture che non conosco (come il sistema giornalistico e la società svedese di Millennium o l’immigrazione irlandese di Lehane). Mi dà qualcosa in più.
Quali difficoltà hai incontrato nelle ricerche dei luoghi e dei fatti?
Con il web le ricerche sono diventate più facili. Puoi consultare siti online per un’informazione generale e poi approfondire altrove, se serve. E serve sempre, lo svarione è sempre dietro l’angolo. A me piace parlare direttamente con le persone competenti in campi specifici, le informazioni che possono darti di persona sono sempre più ricche. Del resto, si vede dai molti ringraziamenti in coda al romanzo. Un consulente in particolare (non dico quale per non anticipare) mi ha dato un’informazione che ha impresso una sterzata al romanzo e ha dato più spessore a un personaggio. Per i posti è un’altra questione: per visitare certi luoghi castellani difficilmente accessibili ci ho quasi rimesso una caviglia. Ma lo rifarei subito.
E per la costruzione dei personaggi?
I personaggi seguono una loro logica, sembra quasi che io li controlli soltanto. Se fanno una sciocchezza, però, me ne accorgo subito. O così mi piace pensare.
Il tuo stile, il modo in cui accompagni il lettore lungo il racconto ha un che di giornalistico… perché questa scelta nel modo di raccontare la storia?
Tu parli di giornalismo, io penso al cinema. In effetti la narrazione in prima persona, tempo presente, piazza una bella telecamera in fronte a Montesi, e ci mostra solo quello che vede lui, mentre lo vede. Per un giallo questo crea un percorso particolare, non esiste un narratore onnisciente che può raccontare quello che è nascosto, o può farti saltare da una scena della storia a un’altra. Accade tutto in tempo reale. Credo che questo dia immediatezza, ritmo e complicità con il personaggio, perché vediamo tutto attraverso i suoi occhi. È il tipo di narrazione che preferisco, anche se sto sperimentando soluzioni diverse, con altre storie e altri personaggi.
Chi è il protagonista della tua indagine? Parlaci di Matteo Montesi.
Montesi è un lavoratore atipico ante-litteram. Ha tentato il teatro, che non gli ha dato fama e tanto meno da mangiare, ma gli ha lasciato una scomoda empatia e molti amici. Conosce le lingue orientali, lavora come traduttore in proprio e occasionalmente fa traduzioni giurate per la polizia. Ha una vecchia storia dolorosa con l’Africa, che si chiarirà a man o a mano nel corso delle prossime avventure. Nelle sue intenzioni l’agenzia investigativa La Rete, per cui si avvale dei suoi amici attori “in momentanea disoccupazione”, dovrebbe risolvere faccende di basso profilo, ma ogni tanto incappa in casi clamorosi solo perché Montesi non sa dire di no agli sguardi disperati. La sua forza è proprio l’empatia, insieme a una grande attenzione ai dettagli discordanti. Sono i dettagli che non quadrano a guidarlo, e una grandissima testardaggine.
Da dove ti è nata l’idea di Doppia indagine e perché “doppia”?
Da una collana, da una storia realmente accaduta molti anni fa, da un concerto del maestro Cappello, dal numero incredibile di persone che scompaiono ogni anno. Da Stella, che esiste e danza e disegna, anche se non si chiama così; da alcune persone che ho visto o incontrato, da problemi solo apparentemente lontani nel tempo e nello spazio. È doppia perché Montesi deve indagare di nascosto dal suo amico commissario, Santarelli. Perciò si inventa una specie di “indagine di copertura”. Ma le cose non andranno come pensava che sarebbero andate.
Su FB hai inserito questa citazione: “Quando un uomo con un libro incontra un uomo col telecomando, l’uomo col telecomando è un uomo morto.” Non mi sembra che guardi molta TV, eppure nel tuo romanzo ti rifai all’attualità.
Difatti non la guardo. Preferisco vivere. Ma ascolto molta informazione. La cronaca non mi guida. Piuttosto, e purtroppo, conforta le mie scelte. Tutte le volte che penso “naaa, questa cosa non funziona, è impossibile”, ecco un fatto di cronaca più assurdo e crudele di qualsiasi parto della fantasia.
Continuerai su questo filone? Ci sarà un’altra indagine dell’investigatore Matteo Montesi? Stai lavorando a qualcos’altro?
Matteo Montesi ha da tradurre per un po’, ma tornerà. Al momento sto facendo ricerche per un giallo che sarà ambientato a Roma e riguarderà un argomento particolare, per cui mi toccherà rompere le scatole a parecchie persone. Ma ormai sto nell’Albo d’Oro, mi daranno retta.
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