2 romanzi a confronto di Anthony Berkeley: The Wychford Poisoning Case vs Not to Be Taken

marzo 24th, 2014 by Moderatore

Unknown

Non mi dilungherò a introdurre Anthony Berkeley perché è uno scrittore di cui ho già parlato in passato. Oggi parleremo in particolare di due romanzi, che a parere mio potrebbero essere speculari: The Wychford Poisoning Case (1926) e Not to Be Taken (1937).

Perché innanzitutto questi due? Perché se è vero che, nella produzione di Berkeley, parecchi sono i romanzi in cui si discute di avvelenamento, è anche vero che questi due romanzi trattano entrambi un classico avvelenamento da arsenico.

E’ da dire che nella produzione in genere britannica, vi sono vari scrittori che hanno affrontato il tema del veleno a partire dagli anni ’20. Se nel caso di Agatha Christie, la sua conoscenza di medicinali e veleni si formò durante il servizio, nel corso della Prima Guerra Mondiale, presso l’ospedale di Torquay, il fatto che molti altri scrittori in quegli anni abbiano scritto romanzi polizieschi le cui trame fossero basate su avvelenamenti ( Berkeley, Brand, Sayers, Rhode, Freeman, etc..) significa che era un argomento condiviso generalmente : esso potrebbe essere stato in relazione al bombardamento mediatico che nelle prime due decadi del secolo e anche prima ci fu a riguardo di famosi avvelenatori (Armstrong, Crippen, Maybrick, Seddon) che influirono pesantemente su scrittori che  necessariamente avrebbero dovuto andare incontro alle aspettative del pubblico; e sicuramente un bacino di utenza pesantemente influenzato da notizie di crimini basati su avvelenamenti, avrebbe meglio accolto romanzi di intrattenimento che avessero dibattuto delle stesse cause: un po’ come è oggi in cui i romanzi polizieschi in generale, in una società in cui i valori sono il sesso e i soldi, basano i loro crimini su sesso e soldi, e sulle loro implicazioni di carattere perverso.

Orbene, Berkeley – che trattò varie volte di avvelenamenti nei suoi romanzi polizieschi (The Wychford Poisoning Case(1926), The Poisoned Chocolate Case (1929), The Piccadilly Murder(1929), Malice Aforethought (1931) almeno – risentì, come abbiamo detto, del clima mediatico di quegli anni, che influenzò non solo , è bene dirlo, autori britannici ma anche americani (Van Dine, Ellery Queen, Charles Daly King). Tuttavia, se negli autori americani il veleno è inserito in plot di tipo puzzle, in quelli britannici lascia il passo ad una trattazione del soggetto basata su implicazioni e variazioni di carattere psicologico: è il caso di Agatha Chrstie, ma anche di Anthony Berkeley, e di Dorothy Sayers, non a caso appartenenti al Detection Club.

Anche Carr, in maniera emarginale, trattò di avvelenamenti, ma solo in sporadici casi (Death in Five Boxes, ad esempio, o The Black Spectacles) e comunque inserendoli dentro trame complesse, del genere “delitto impossibile”. Tuttavia, se Carr, vi riuscì a prezzo di un virtuosismo narrativo ineguagliato e ad una cavillosità deduttiva da lasciare a bocca aperta, è anche da dire che nel caso del romanzo in cui agisce Merrivale, Death in Five Boxes, che si basa specificamente su un avvelenamento di più persone, è stato proprio il tema scelto, l’avvelenamento, a costringerlo a fare i salti mortali nel ragionamento finale, che riesce di per sé poco chiaro. Questo perché Carr predilige i romanzi tipo puzzle, di carattere deduttivo classico, quasi tutte Camere Chiuse o Delitti Impossibili, al romanzo basato sul ragionamento di tipo psicologico puro: del resto, si prestano di più a trame del genere, delitti basati sull’uso di pallottole, oggetti contundenti, affilati, piuttosto che veleni, e questo per la natura del mezzo usato per commettere il reato: infatti, se la pallottola, il pugnale, la spada, il laccio o la corda, prevedono un’azione diretta dell’assassino sulla vittima, e quindi in questo caso il plot, per evitare che esso sia subito individuato, deve mettere in scena per forza un trucco, l’avvelenamento è un’arma più infida, che non necessita direttamente della presenza dell’assassino nel momento in cui avviene il delitto. Inoltre, mentre un’arma da fuoco o da taglio o una corda per strangolare, sono strumenti che l’assassino magari non avrebbe usato se non si fosse trovato in condizioni particolari, cioè non legate necessariamente all’omicidio (che può essere avvenuto perché provocato lì per lì da qualcosa di inaspettato), l’avvelenamento è sempre una modalità che si collega alla premeditazione dell’omicidio. E come tale, è solo uno degli ingranaggi in un piano accuratamente previsto prima, freddo, in cui l’avventatezza e l’istinto non esiste. Così, individuare un avvelenatore, prevede sempre un ragionamento di tipo psicologico, cosa che invece può non accadere negli altri casi, o quanto meno un ragionamento basato esclusivamente sugli indizi, ma comunque non di tipo puzzle (sempre che non si parli di Carr)..

E’ questo il caso dei due romanzi di Berkeley.

Il primo, Il veleno di Wychford, The Wychford Poisoning Case (1926), è un romanzo stranamente bistrattato dalla critica comune,che basa il proprio giudizio più su argomenti secondari, che non sulla qualità narrativa del romanzo.

Riporto parte di un post, proprio su questo romanzo, che il mio amico John Norris, tempo fa, ha esternato su Gadetection:

“One of Berkeley’s scarcest book and deservedly so. Not really worth tracking down. Was this stupid and silly at times.  The spanking scenes – what the hell?  Did Alec have a fetish for hitting young women?  This was written in 1926 and the “Bright Young Thing” air about it all was really grating and annoying.  Some of Sheringham’s arch speech is funny but most of it reeks of the smart alecky, pseudo-sophisticate that belongs firmly to the 1920s.  He is painted as a misogynist, but a close reading reveals that this is only a mask.  I think Sheringham really appreciates most women.  He alludes to having been truly in love once but the object of his affection married another man.  This is supposed to explain why he is such an asshole at times…”.

Il giudizio non è cioè certamente del tutto positivo: il romanzo è definito scarcest book and deservedly so. Not really worth tracking down. Was this stupid and silly at times. E il giudizio è ancor più marcato quando critica la scena di spanking (Alec piega sulle sue ginocchia la cugina Sheila, e le assesta uno sculaccione sulla natica). Questo e altri caratteri (il discorso per esempio che Roger fà a riguardo delle donne, di carattere eminentemente misogino) sono criticati fortemente. Tuttavia John, nel prosieguo del post, non può non riconoscere come il romanzo, per quanto concerne l’avvelenamento, sia ben fatto:

“But overall the dialogue and “Aren’t I a clever chap?” kind of garbage makes this extremely dated.  Lots and lots of purportedly witty banter – entire chapters could’ve been excised that have absolutely no point whatsoever (the chapter in which Sheila is first spanked, for example).  The investigation of the poisoning crime, however, is neatly done.”

Ora, indubbiamente, il tono fortemente sarcastico sul poco rispetto delle donne verso le cose essenziali della vita, posto che esse fossero le loro abitudini di vita, rispetto al passato di Sheringham, può far ridere: può esser visto, tuttavia, come il rimpianto in sostanza per i tempi passati, anche se qui c’è una forma divertita di apprezzamento celato nel rimprovero bonario:

“Una delle cose più sorprendenti sulle giovani di oggi è il loro senso del tempo. Con la precedente generazione di donne, cinque minuti erano un invariabile eufemismo per quindici o venti, specie se si trattava di mettersi un cappellino; e a quell’epoca, si potrebbe aggiungere, né il rossetto né la cipria erano parti essenziali del modo di presentarsi di una esponente del sesso femminile. Eppure, con solo un paio di secondi di ritardo sul tempo annunciato, Sheila stava già scendendo le scale di corsa. Si era incipriata, passata il rossetto sulle labbra, messa la giacca e infilata un cappellino grigio ben calcato sopra i capelli corti, scuri. II succo di tutta la faccenda, come potrebbe spiegarvi qualunque quotidiano domenicale, è che la giovane donna di oggi non ha alcuna forma di rispetto, nemmeno verso le cose più importanti della vita.” (Anthony Berkeley : Il veleno di Wychford, The Wychford Poisoning Case, 1926 – Trad. Mauro Boncompagni – I Classici del Giallo Mondadori, N.1077 del 2005 – Cap. 8 Pag. 78).

Altrove invece Sheringham finge di esprimersi pesantemente sulle donne. Dapprima esprime il classico pensiero maschilista :

“- Alec, sei proprio senza speranza! Il matrimonio non ti ha insegnato che le donne non vivonoin cima a un piedistallo, conducendo le loro buone pure irreprensibili piccole esistenze in una nuvola bianca dal carattere sovraumano? Le donne, mio caro Alec sono state mandate su questa terra solo per uno scopo: mettere alla luce dei figli. Questa è l’unica vera missione nella loro vita ed è una missione dannatamente importante visto che loro sono state concepite e progettate solo e interamente per realizzarla.” (Idem, Cap. 11 pag.104) ;

poi esprime il proprio parere sulla loro qualità intellettuale:

Ora non voglio farti una conferenza sulle donne, ma credo che in merito dovresti almeno sapere le cose che sa anche un bambino di dieci anni. Quasi tutte le donne, poi, caro Alexander, sono delle idiote…cerebralmente un po’ deficitarie se preferisci. Certo pur sempre idiote, deliziose idiote, adorabili idiote ma pur sempre idiote, e della peggione specie. Spesso anche diabolicamente idiote, perché moltissime donne sono demoni potenziali, sai. Vivono interamente in base alle loro emozioni, sia nel pensiero che nelle loro opere, operg’ sono fondamentalmente  incapaci di ragionamento e la loro unica idea nella vita è quella di apparire attraenti agli uomini. Questo è tutto che c’è da sapere sulle donne” (Idem, Cap. 11 pag.104).

Ma non è finita. No. Ammette che ci siano delle eccezioni: “Di tanto in tanto, naturalmente, si incontrano delle eccezioni… grazie al cielo! E, invariabilmente queste eccezioni si fanno sempre sentire, o nella loro cerchia immediata o negli affari, se per caso non hanno alcuna sensibilità artistica. Oppure finiscono per diventare romanziere (per lo più), pittrici (occasionalmente) e musiciste (molto di rado)… strana l’ultima possibilità tra l’altro perché la musica è decisamente la forma più emotiva di autoespressione. Ed è ancor più strana se si pensa che la musica dovrebbe andare di pari passo con la matematica, come in effetti è.” (Idem, Cap. 11 pag.104 ). Per poi concludere che purtroppo non ce n’è una sola che sia riuscita a capire un uomo:

 “A loro piace presentare le loro testoline vuote come misteriose, profonde, sfingee e altre amenità simili; le rende importanti, vedi, e solo il cielo sa che loro hanno bisogno di tutta l’importanza che riescono a racimolare, sia pure in modo truffaldino. Ma la verità è che un qualsiasi uomo che abbia un po’più di mezzo cervello è in grado di capire le donne persino,a rovescio, dalla punta delle loro fatue scarpine ai capelli che hanno in testa, soprattutto perché non c’è niente da capire. Ma non è ancora nata la donna che sia stata in grado di comprendere anche un solo uomo. E questo è tutto sulle donne, almeno per il momento.” (Idem, Cap. 11 pag. 105).

Tuttavia è uno sfogo bonario, perché in realtà ammette subito dopo le donne sono ben altro:

“- Mio Diol – sospirò Alec, non senza un tocco di ammirazione. – Che prosopopea! Ma non vuoi mica dirmi che credi sul serio a quel cumulo di sciocchezze? Roger sorrise. – In tutta sincerità, Alexander, no! Quellà è la paccottiglia cinica e dozzinale con cui uno scrittore di quarto grado riempie i suoi libri nella speranza di poter essere scambiato semplicemente per uno scrittore di terzo grado…Nessuno sa meglio di me che un uomo senza una donna è un’entità dimezzata, così come una donna (la donna giusta per lui, inutile a dirsi) non solo può farlo diventare due volte più importante di quello che era prima, ma può anche cambiare la vita del suo promesso per quanto squallida possa essere, in qualcosa di incredibilmente meraviglioso…troppo meraviglioso, a volte, perché uno scapolo convinto come me sia in grado di contemplare l’evento con equanimità.” (Idem, Cap. 11 pag. 106).

Tuttavia, in fondo, un pregiudizio lo ha, ma al lettore sorge il sospetto che esso esista per il fatto che Roger sia scapolo, cioè non abbia trovato ancora l’anima gemella e perciò si comporti come la volpe che non riuscendo ad arrivare all’uva diceva che era acerba:

“Allora se nessuno lo sa meglio di te – osservò Alec – perché sei ancora uno scapolo convinto? 

– Perché nel mio caso, Alexander – rispose Roger in tono abbastanza leggero – la donna adatta a me purtroppo si è sposata con qualcun altro…. 

-Comunque..la donna media non molto dotata dal punto di vista cerebrale e di solito si ritiene un mistero, cosa che ovviamente non è” (Idem, Cap. 11 pag. 106).

Il pensiero di Roger sulle ragazze troppo moderne era quello di Berkeley ? Non lo sappiamo. Tuttavia ancora una volta Roger si qualifica come un uomo incapace di relazionarsi rispetto ad una emancipazione troppo subitanea delle donne: è emblematico il suo pensiero sulle punizioni che dovrebbero riguardare le ragazze troppo moderne:

Ci dovrebbe essere una legge che prevede un pubblico sculacciatore nominato in ogni città, con un salario direttamente proporzionale alla forza delle sue sculacciate e il compito di far rigare dritte queste ragazzette. Bisognerebbe istituire anche dei razionamenti. Per esempio: non più di un rossetto al mese, al massimo trenta grammi di cipria nello stesso lasso di tempo, venti sigarette a settimana e quattro imprecazioni al giorno…” (Idem, Cap. 6 pag. 53). Punizione che Alec applica alla cugina Sheila Purefoy, sebbene nell’ambito di una sorta di complicità con la madre di Sheila, incapace di tenere testa alla vivacità della figlia:

“..Stai crescendo troppo in fretta per il tuo stesso bene. E ora stattene ferma…Alec fece appena in tempo ad afferrarla per il vestito da tergo, poi la tirò di nuovo giù. Subito si sentì il rumore di una sculacciata” (Idem, Cap. 7, pag. 64).

La scena dello spanking è un po’forzata e sembra quasi che sia stata inserita per fare da contraltare alle parole di Roger : dobbiamo tuttavia ricordarci come la pratica dello spanking, nell’educazione di tipo britannico, fosse contemplata anche scolasticamente, cioè fosse una pratica assolutamente accettata a livello di mentalità. Qui tuttavia, è inserita nell’ambito di una prosaicità assolutamente frivola e scanzonata, in cui la personalità dell’investigatore dilettante Roger Sheringham svetta nella sua vanità esagerata. Per di più, questa ed altre “uscite” di Sheringham, sono il risultato della sua educazione: Sheringham non è altro che il prodotto della borghesia agiata britannica, è un giovane scrittore che scritto un primo romanzo che ha avuto successo e per cui si è montato la testa.

Il ritratto di Sheringham viene fatto nel primo romanzo scritto da Berkeley (Delitto a porte chiuse, The Layton Court Mystery  – trad. Mauro Boncompagni – I Classici del Giallo Mondadori N.950 del 2003):

“Di aspetto è in qualche modo appena al di sotto della statura media e ha una corporatura piuttosto robusta, con un viso più rotondo che affilato, e due occhi grigi acuti e scintillanti. I calzoni informi e la giacca da campagna decisamente vecchia che indossa fanno pensare ad una certa eccentricità e a un qualche disprezzo per le convenzioni, eccentricità e disprezzo che sono però troppo studiati per essere naturali, e che pure, in qualche modo, non degenerano mai in una vera e propria posa. La pipa dal grande fornello e dal bocchino corto che stringe all’angolo della bocca sembra costituire una parte interseca dell’uomo. Si aggiunga a tutto ciò il fatto che ha più di trent’anni e meno di quaranta, che ha fatto le scuole superiori a Winchester e l’università a Oxford, e che manifesta (o almeno così sostiene) il più profondo disprezzo verso i suoi lettori (i quali, secondo il suo editore, sono sorprendentemente assai numerosi)” (Idem, Cap.1 pag.10)

Sheringham crede di essere un grande scrittore e un grande investigatore, e generalmente lo è, ma è troppo pieno di sé (la sua boria talmente fine a se stessa, da risultare talora ridicola, viene fatta affossare da un altro eroe berkeliano, Ambrose Chitterwick – che compare anche in The Piccadilly Murders e Trial and Error – in The Poisoned Chocolate Case) , e dispensa giudizi su tutto e tutti, come se fosse Dio incarnato:

Roger, non è che quell’affare di Layton Court ti ha dato alla testa, vero?

Come sarebbe a dire?

Bé, solo per il fatto che lì hai indovinato la verità, a differenza di tutti gli altri, non è che hai cominciato a ritenerti infallibile?” (Idem, Cap. 5 pag. 44);

“– Sembra che tu sappia un mucchio di cose su questi casi! – osservò Alec…

E’così  – concordò Roger…In effetti – aggiunse con candore – non sarei affatto sorpreso di essere il maggior esperto vivente in materia di criminologia” (Idem, Cap.5 pag.50).

Gli anni ’20, recano con loro questa atmosfera un po’ folle e spiritosamente leggera: non è una caratteristica solo di Berkeley, ma anche di Allingham in parte. Se penso agli anni ’20, io associo subito ad essi la vicenda della Canarina assassinata di Van Dine, dei suoi balletti ornitologici. E’ l’atmosfera di un’epoca su cui ancora non gravava la Grande Depressione di Wall Street del 1929. Con il crollo della Borsa newyorkese, crollarono quei pilastri e anche i romanzi polizieschi che vennero dopo, consegnandoci i capolavori degli anni ’30, persero quell’innocenza giocosa e sbarazzina degli anni precedenti.

Tuttavia al di là di queste amenità, il romanzo è un pezzo di bravura, giocato su una indagine di tipo psicologico, volta a ribaltare il giudizio già in qualche modo definitivo, espresso sulla moglie di John Bentley, dell’omonima ditta di export, morto per una dose esagerata di arsenico. Bisogna anche vedere il perché se c’era un avvelenamento, si desse per scontato o quasi che fosse stata una donna l’autrice: perché nell’universo femminile che l’età vittoriana aveva consegnato, la donna era un essere indifeso o quasi, che non era forte e risoluta come l’uomo e come tale, delitti come lo strangolamento, che pretendevano il coinvolgimento diretto e quasi fisico dell’assalitore con l’assalito, o similaria, non venivano messi in relazione con la debolezza fisica e psichica delle donne, a cui non restava altro se non la calibro 22, una pistola da borsetta (era impensabile per l’epoca poter associare una calibro 45 ad una donna!) e il veleno. Ovviamente la scelta del veleno, veniva associata poi al delitto perpetrato nell’ombra, e quindi tra le varie forme di delitto, l’avvelenamento era la più perfida e insidiosa: non era Eva che aveva convinto Adamo a fidarsi del serpente? Il legame tra donna e serpente è stato deciso sin da quel momento; e cos’è l’arma del serpente? Il veleno.

Roger Sheringham, è stato colpito dal fatto che nel caso dell’avvelenamento di Bentley, diversamente da quanto accade più comunemente, cioè che non si trovi arsenico e non si sa dove esso possa essere stato reperito, qui se ne trovi veramente tanto: una dose in corpo che avrebbe ucciso almeno due persone; inoltre anche i capelli e le unghie, rivelano tracce di arsenico, tanto da dimostrare come l’avvelenamento sia cominciato molto prima di quando si suppone gli sia stata somministrata la dose letale, cioè che qui si assommi un avvenimento da arsenico di tipo cronico con uno di tipo acuto. Del resto, il medico di famiglia, avendo da tempo diagnosticato una dispepsia, aveva deciso per una gastroenterite mortale, e solo in un secondo tempo, dopo che una cameriera, Marie Blower, aveva raccontato ad un’amica della signora Jacqueline Bentley, la signora Saunderson, che la padrona aveva giorni prima messo a bagno in un piatto in un poco d’acqua tre fogli di carta moschicida all’arsenico, e di aver visto un pacchetto che poi si era scoperto contenere una cinquantina di grammi di arsenico puro, altri due medici avevano deciso di rivedere il giudizio di morte naturale, ed eseguire le analisi di rito degli organi dopo l’autopsia; anche perché si sapeva che i rapporti tra i due coniugi non erano più idilliaci, e la moglie per ben due volte era stata sul punto di abbandonare il marito, a causa della sua relazione extraconiugale con Ronald Whittaker Allen. Sheringham decide quindi di investigare, andando contro- corrente e avendo già stabilito che la vedova sia non la vera assassina ma una vittima. Non aveva detto la Blower però di aver dato una limonata al padrone sofferente, perché non vedeva nulla di male nel dargliela. Tuttavia un’altra fonte di somministrazione dell’arsenico, sarebbe potuta essere proprio la limonata: infatti Jacqueline Bentley utilizzava una mistura di limonata e arsenico per schiarire la pelle (in quei tempi era comune fra le donne il “colorito bianco arsenico” della pelle).

Dovrà quindi investigare a 360° e per farlo ha bisogno di qualcuno che nell’ambiente del posto dove il misfatto è accaduto, lo introduca e sia per lui una sorta di “testa di ponte”. Alec ha una cugina, Sheila, che abita nella città dove è avvenuta la morte sospetta: saranno lei e il cugino le persone di cui Sheringham si servirà per avvicinare alcuni degli attori di questo dramma.

Sheila è una bella ragazza, moderna, anche troppo, e Roger, ha con lei uno strano rapporto, frivolo e superficiale, basato sullo scherzo, ma che lascia intravedere qua e là come Roger in fondo, pur prendendola in giro, abbia di lei una grande considerazione, che lascia quasi dietro il rimpianto, quando viene a sapere che la ragazza ha un boyfriend.

Roger riuscirà a salvare dall’impiccagione la vedova Bentley, avviando una serie di indagini che poggiano su assai pochi indizi. Si servirà, in quest’occasione, oltre che delle confidenze di alcuni soggetti del dramma (con le donne, la Saunderson o la Bower, farà leva o su una pretesa adulazione o sulla vanità per superare le difese e approfittare delle rivelazioni), soprattutto di personali elucubrazioni di genere psicologico, con cui riuscirà innanzitutto a puntare l’attenzione su sette possibili responsabili: Signor Allen (avrebbe potuto uccidere Bentley per vendicare la moglie: Bentley aveva avuto parecchie scappatelle, per esempio con la cameriera Bower) e la consorte (avrebbe potuto uccidere Bentley per far incolpare il marito e la sua amante); i fratelli di John Bentley, William e Alfred (per ragioni concernenti l’eredità); la stessa Jacqueline Bentley (per poter finalmente allontanarsi dal marito senza perdere l’eredità): la cameriera (per vendicarsi del padrone che l’aveva abbandonata dopo averle promesso chissà cosa e della padrona che l’aveva licenziata per ripicca); la Signora Saunderson, amica della Bentley ( innamorata di William Bentley), se si fosse risposata avrebbe perso la sua rendita e quindi la morte del futuro cognato sarebbe caduta a fagiolo. In sostanza, Roger riesce a venir a capo della faccenda avendo esperito la possibilità che la morte sia stata dovuta ad omicidio, ad incidente, a suicidio, e conseguentemente ipotizzando ogni qualvolta una relativa soluzione. Tuttavia la soluzione sarà solo la quarta ipotesi, quella non contemplata, in un finale breve ma rivelatore, in cui Roger esprimerà anche il proprio parere sulla qualità dell’investigazione psicologica.

Infatti, la psicologia è la vera anima del romanzo. Berkeley volle creare un romanzo poliziesco che si basasse su di essa, e lo dedicò alla scrittrice Elizabeth M. Delafield (“La più deliziosa delle scrittrici” si legge nella dedica) perché con lei aveva più volte dibattuto sulle componenti psicologiche in un caso criminale. Addirittura Berkeely vede la necessità di far svolgere una filippica a sua difesa dal suo protagonista:

E adesso passiamo dal generale al particolare. In altre parole, al ménage Bentley. Ora, ti sei

formato una qualche opinione sulla personalità delle due parti in causa, Monsieur e Madame? Saresti in grado di delineare un rapido schizzo del carattere di Bentley, per esempio?

No, questo non saprei proprio farlo, Io mi ero concentrato più sui fatti che sui personaggi.

Roger scosse la testa con disapprovazione. 

Un grande errore, Alexander, un grande errore. Cosa pensi che renda un caso di omicidio così incredibilmente affascinante? Non certo i sordidi fatti in se stessi, no. Piuttosto, è la psicologia della gente coinvolta; la personalità del criminale, la personalità della vittima, le loro reazioni alla violenza, quello che hanno sentito, pensato e sofferto lungo tutta la vicenda. Le circostanze del caso, i metodi dell’assassino, i motivi del delitto, i passi intrapresi per eludere le indagini della polizia’.. tutto ciò deriva nella maniera più diretta dal carattere’ In se stessi, questi elementi sono solo secondari. I fatti, si potrebbe sostenere, dipendono dalla psicologia.” (Idem, Cap.2  pag.15).

Più avanti, l’importanza della psicologia nella risoluzione di un caso, è riaffermata quando dice:

“Alec, in un libro che stavo leggendo l’altro giorno ho trovato una frase piuttosto illuminante. Era qualcosa del genere, più o meno: “Le storie poliziesche di tipo comune mi annoiano, perché il loro scopo è semplicemente quello di svelare chi ha commesso il delitto; ma quello che personalmente ni importa è perché è stato commesso”. Capisci? In altre parole, il vero interesse in un caso di omicidio nella vita reale, l’interesse che fa riempire di articoli intere pagine di giornali e induce cittadini perfettamente rispettabili a lasciar freddare le loro uova al bacon mentre li leggono e rileggono, non è il puzzle intricato della storia poliziesca abilmente costruita, ma il fattore umano che ha portato a commettere un omicidio probabilmente del tutto ordinario. Nella vita reale i puzzle intricati quasi non esistono, sai; eppure, i drammi classici che si svolgono in un tribunale penale sono più interessanti e coinvolgenti di qualsiasi detective story mai scritta. Perché? Per i loro valori psicologici. Prendi il caso di Crippen, per esempio. Non c’era un’ombra di dubbio su chi fosse stato l’assassino di Belle Elmore, né sul fatto che Crippen fosse colpevole. Ma citami il romanzo poliziesco in grado di competere con quella vicenda per puro interesse mozzafiato.

Quello era una specie di puzzle, però, almeno in un certo senso – obiettò Alec.

Oh, certo; non sto dicendo che gli enigmi intricati non possono assolutamente presentarsi nella vita reale…..Quello che dobbiamo tenere sempre a mente è il fattore umano. E’ il fattore umano che rende possibile il delitto, ed è sempre il fattore umano che dovrebbe perciò condurci alla verità.” (Idem, Cap.12  pagg.119-120).

Ma il finale cela un’amara considerazione su come si debba pur sempre attenersi ai fatti e non lasciarsi prendere dalla smania di ragionare e di fare delle congetture campate in aria, quando si può arrivare alla soluzione solo basandosi sui crudi fatti. E’ uno sfogo contro la cattiva psicologia che può essere alla base di tante soluzioni sbagliate e di condanne ingiuste:

“Questo caso è stato un interessante esercizio psicologico’ e la cosa sorprendente è capire quanto avevamo ragione e  insieme quanto avevamo torto. Credo che le conclusioni da noi tratte su ciascuna di quelle sette persone fossero perfettamente corrette dal punto di vista psicologico, ma solo nei casi  di Allen , di William Bentley e della signora Bentley le nostre deduzioni dai fatti si sono rivelate egualmente corrette….Ma il problema è che noi abbiamo prestato troppa attenzione alle possibilità psicologiche e non abbastanza ai nudi fatti” (Idem, Cap.25 pag. 246).

Già in questo romanzo notiamo quella che sarà una delle caratteristiche di Berkeley: la possibilità di creare varie ipotesi (che possono portare anche ad esiti completamente differenti) partendo dalle medesime basi indiziarie.

Ricorderò qui quello che scrissi nella seconda parte della mia storia delle Dissertazioni sulle Camere chiuse (è in preparazione una quarta parte)pubblicata su questo blog, tempo fa:

“…Va detto anche, per completezza, che tredici anni dopo la pubblicazione di The Case with Nine Solutions (che è del 1928), Connington scrisse un altro romanzo che riprendeva la stessa tecnica delle permutazioni, The Twenty-one Clues (1941), e che a dispetto della maggiore semplicità di esser rispetto a quelle in The Case with Nine Solutions, per la solidità dell’intreccio, e per la varietà degli indizi lasciati, viene ritenuto il romanzo più complesso di Connington. A questo punto qualcuno potrebbe obbiettare: perché richiamare Connington e non Berkeley? Il perché taluni abbiano pensato a interconnessioni tra Carr e Connington e non tra Carr e Berkeley, intendo il Berkeley di The Poisoned Chocolates Case, 1929 (Il caso dei Cioccolatini avvelenati, romanzo nato da un racconto dello stesso Berkeley, risalente allo stesso 1929, The Avenging Chance), è presto detto: sia Carr che Connington sono legati dal medesimo espediente, ossia le permutazioni, combinazioni diverse (per es. gli anagrammi di una parola sono sue possibili permutazioni), che portano a sviluppi differenti ma che hanno sempre in comune i medesimi elementi. Anthony Berkeley, invece, non utilizza le permutazioni, bensì adotta una tecnica che deriva dal Bentley di Trent’s Last Case (1913): arrivare dalle stesse basi indiziarie ad esiti completamente differenti. Ecco le 3 soluzioni di Bentley, ecco le 6 di Berkeley, ecco le 4 di The Greek Coffin Mystery ( 1932) di Ellery Queen. Sembrerebbe un gran minestrone, ma ciascuno dei quattro autori citati è legato agli altri: Berkeley e Queen derivano la stessa tecnica da Bentley; Berkeley e Queen, ma soprattutto Queen influisce su Carr….”

( HYPERLINK “http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2012/01/12/dissertando-di-camere-chiuse/” http://blog.librimondadori.it/blogs/ilgiallomondadori/2012/01/12/dissertando-di-camere-chiuse/) Così possiamo affermare che le sei ipotesi enunciate da sei personaggi diversi che portano a sei diversi colpevoli, in The Poisoned Chocolates Case, 1929 a ben donde derivano da quelle enunciate in questo suo secondo romanzo (omicidio, incidente, suicidio, ?): ovviamente non dico quale sia la quarta ipotesi, perché se la rivelassi, tradirei la prima legge inderogabile di chi scrive su romanzi polizieschi: non rivelare mai il responsabile

In un suo lungo articolo, pubblicato tempo fa, lo scrittore contemporaneo Martin Edwards scrive che “Sheringham’s second outing was in The Wychford Poisoning Case (1926). Key elements of this excellent mystery derive from the classic Maybrick murder case in Liverpool; Berkeley was a student of true crime, and notable cases provided source material for several of his books. His ingenuity in devising a series of plausible solutions to the puzzle is impressive and it is a surprise that this book has not received more critical attention. Berkeley dedicated the book to a writer whose reputation has survived rather better, E. M. Delafield, and he expressed the hope that she would ‘recognise the attempt I have made to substitute for the materialism of the usual crime-puzzle of fiction those psychological values which are … the basis of the universal interest in the far more absorbing criminological dramas of real life. In other words, I have tried to write what might be described as a psychological detective story”.

Il giudizio di Edward, che condivido in toto, e che, non guardando all’esteriorità, analizza il romanzo sulla base delle sue qualità narrative, mi serve per porre in rilievo come Berkeley dovette accumulare molto materiale prima di scrivere questo suo romanzo: ora, che egli fosse interessato di per sé oppure si fosse interessato solo per confezionare una certa aura al suo personaggio più famoso, non è importante; lo è, invece, la cultura criminale che egli sfoggia.

Come anche dice Martin, sicuramente Berkeley improntò questo suo primo romanzo sul caso Maybrick di Liverpool :  James Maybrick, che era un grosso commerciante di cotone di Liverpool e che divideva la sua attività tra l’America e l’Inghilterra, dopo essersi sposato (a 42 anni) con Florence Elizabeth Chandler americana (18 anni), che aveva incontrato in viaggio, e con cui aveva messo al mondo due figli, morì nel 1889 in modo sospetto. I suoi fratelli sollecitarono un’inchiesta da cui le indagini rivelarono la morte per avvelenamento da arsenico. Del delitto fu accusata la moglie, che aveva una tresca con un altro commerciante; tuttavia la condanna a morte della donna fu commutata in ergastolo, dopo che fu dimostrato come anche la vittima, lontana spesso da casa per le sue transazioni commerciali, avesse intrattenuto varie relazioni extramatrimoniali con diverse amanti e come probabilmente la moglie ne fosse venuta a conoscenza. Ma al di là del caso da cui egli sicuramente trasse spunti per il suo romanzo, Berkeley dovette interessarsi a molti altri, echi di cui cogliamo in alcuni brani di questo suo romanzo:

“..I fatti, si potrebbe sostenere, dipendono dalla psicologia. Cos’era che rendeva il caso Thompson-Bywaters così straordinariamente interessante?…Lo stesso vale per il caso Seddon, il Caso Crippen, o per citare un classico della criminologia, il caso di William Palmer..” (Idem, Cap.2 pagg. 15-16);

“..Naturalmente ci sono anche dei tipi squilibrati che fanno ricorso al veleno, come Pritchard o Lamson. Ma loro costituiscono più l’eccezione che la regola. Il vero e naturale avvelenatore è l’individuo freddo e spietato, calcolatore come Seddon o Armstrong. Crippen, tra parentesi, è stato costretto a diventare un avvelenatore dalla forza delle circostanze..” (Idem, Cap. 3 pag. 31);

“..allora lascia che ti ricordi il caso di una certa Catherine Wilson, che assassinò non meno di sette pazienti e cercò di ucciderne diversi altri…Considera poi il caso di una signora che si chiamava Van de Layden, anche lei infermiera, che tra il 1869 e il 1885 assassinò non meno di ventisette persone e fece del suo meglio per assassinarne altre 75. Considera anche una certa Marie Jeanneret che aveva simili impulsi e divenne infermiera professionale per gratificarli..” (Idem, Cap.12 pagg.112-113);

“Non si è mai dimostrato che Seddon fosse colpevole di aver avvelenato la signora Barrow; e ancor più certamente non si è mai dimostrato che la signora Thompson fosse colpevole di istigazione all’omicidio del marito. Eppure sono stati entrambi impiccati. Perché? Perché non erano in grado di provare la loro innocenza” (Idem, Cap.7 pag.71).

Quest’ultimo estratto è anche molto interessante per la differenza tra il sistema giudiziario francese e quello inglese. Berkeley osserva, tramite il suo personaggio principale, come il sistema francese si basa sulla presunzione di colpevolezza mentre quello inglese su quella di innocenza, in altre parole che nel primo caso l’imputato deve dimostrare di non essere colpevole, mentre nel secondo spetta alla giustizia dichiarare l’imputato colpevole e in quel caso egli deve cercare di dimostrare invece di essere innocente

“– Io credevo che il sistema giudiziario francese fosse molto duro. Loro non considerano un imputato colpevole finchè egli non è in grado di dimostrare la sua innocenza? Bè, noi facciamo l’esatto contrario, no?…I francesi mettono l’accusato di fronte al cadavere della sua supposta vittima e lo studiano con la lente d’ingrandimento per vedere quali sono le sue reazioni, mentre noi passiamo un paio d’ore a discutere se una certa prova, che la giuria conosce già alla perfezione, può essere ammessa formalmente come prova, oppure no. …La verità, invece, sta nel mezzo e si potrebbe dire che l’unico modo che esiste di esprimerla è attraverso una serie di negazioni. I francesi non richiedono necessariamente che un imputato provi la sua innocenza, e noi certamente non lo riteniamo innocente fino a quando non è dimostrato che è colpevole…Quello che voglio dire è un’altra cosa, e cioè che se il nostro sistema giudiziario fosse amministrato come noi supponiamo che sia, nessuna di quelle due persone sarebbe mai stata condannata” (Idem, Cap.7 pagg. 70-71)

Ma, questa tendenza tipica in Berkeley, la ritroviamo qualche anno dopo, pari pari in altro romanzo, che Berkeley incentra ancora una volta su un caso di avvelenamento con arsenico: è il caso dell’ultimo romanzo pubblicato da Mondadori: Anthony Berkeley : Il veleno è servito, Not to Be Taken, 1937 – Trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori N.3099 del 2014

Se ho detto nell’introduzione a questo articolo, che i due romanzi si possono confrontare specularmente, è perché nel secondo romanzo, si trovano molti elementi in comune col primo (e anche alcune differenze).

Innanzitutto, questo romanzo è uno di quelli senza personaggio fisso; e questo ha la sua importanza, non solo perché il primo romanzo è con personaggio fisso (Sheringham) e quindi notiamo una prima evidente differenza, ma anche per la natura psicologica del protagonista, che nel primo romanzo è come si sa un soggetto che tende a mettersi in evidenza e a proporsi come il “non plus ultra” del criminologo che, pur dilettante, aiuta la polizia a risolvere casi intricati, mentre nel secondo, per sua stessa ammissione, sarebbe il meno portato, non avendo fatto nulla di rilevante nella vita e svolgendo il mestiere di frutticoltore:

“Ci sono certi attributi che mettono subito in moto il mio complesso di inferiorità, ma non credo di essere unico in questo. La bellezza femminile, per esempio, lascia la maggior parte degli uomini leggermente ammutoliti, e l’intelligenza femminile, com’è notò, è persino più allarmante. Il successo è un’altra cosa che mi rende piuttosto umile, dato che nella mia vita io non ho raggiunto mete particolarmente elevate, nemmeno nella raccolta delle pesche. E davanti alla notorietà mi sento veramente inutile, in un modo che ha dell’esasperante. Cosa ancora più esasperante, non riesco a non provare una sensazione di inferiorità in presenza di qualcuno che ha avuto dei natali migliori dei miei. Poi mi dico che non c’è ragione, perché il ceppo da cui provengo io, sebbene non sia conosciuto è comunque sano, e sono convinto che, data la mia intelligenza potrei cavarmela molto meglio di tanta gente che proviene da famiglie più illustri della mia, se la partita fosse tra individuo e individuo…tra le sei persone rimaste nella stanza dopo la partenza di Harold e Daisy… io ero pronto ad occupare il sesto posto.” (Idem, Cap.3 pag. 32)

Inoltre, cambia proprio l’atmosfera del romanzo: se nel primo siamo alla fine degli anni ’20, un tempo spensierato, in cui si riteneva che tutto il brutto fosse passato alle spalle (lo si nota nelle schermaglie tutto sommato scherzose e scanzonate tra la Signora Purfoy, Alec Grierson e Roger Sheringham da una parte e Sheila Purfoy dall’altra), nel secondo il clima è completamente diverso: è plumbeo, come potrebbe essere il cielo prima di una tempesta;  fermo e composto, com’è il dolore per qualcosa che non è ancora avvenuto ma che si sa avverrà presto; non c’è spazio per l’esaltazione di se stessi ma solo per la consapevolezza delle proprie possibilità; è ritmato dolorosamente, come potrebbe essere solo una marcia funebre; è pieno di eccessi, di pensieri estremistici, nazionalistici o solo idealisti che, nell’immediatezza di un tempo in cui ancora non era avvenuta l’invasione della Polonia, sono per noi terribili. In sostanza Berkeley, al di là del pregio generale dell’opera, uno straordinario pezzo di bravura, è riuscito in quel lontano 1937  a fissare il tempo, a congelarne gli echi che diventano così indicativi per noi, che lo leggiamo quasi ottanta anni dopo, che sappiamo cosa avvenne a distanza di due anni: la cuoca che è fiera del suo essere austriaca e nazista e della sua perfezione, e di come invece gli altri (la domestica Angela Pritchard e la segretaria della moglie della vittima John Waterhouse, Mitzi Bergmann) siano a suo dire “epree” e quindi, imperfette; l’estremismo idealistico di Rona Brougham, sorella di Glen Brougham medico della vitiima, che con le sue idee bolsceviche, è portatrice di un materialismo etico, per cui gli imperfetti o gli inutili possono essere eliminati.

E passiamo al romanzo, un altro incentrato su un avvelenamento da arsenico.

John Waterhouse è un uomo di successo, un ingegnere che è riuscito a portare in ogni parte del globo la propria conoscenza e la tecnologia per produzione di energia elettrica. Da qualche anno si è ritirato nella campagna britannica e sostanzialmente scevro da ogni forma di riposo, è riuscito a ritagliarsi un’attività hobbistica singolare: costruire case. Così facendo ha ampliato la sua proprietà rendendola ancor più completa. John ha una moglie, Angela, che ha un’amante. Il loro rapporto va avanti senza eccessi, tanto più che ella è un’eterna falsa malata: egocentrica al massimo livello, non potendo sopportare di avere intorno persone molto più stimate e amate di quanto possa esserlo lei (John, nella sua comunità cittadino è molto conosciuto e amato, per via dei suoi aiuti ai meno abbienti e alla chiesa locale), si è inventata, da quando era piccola, il fatto di essere perennemente malata, limitando le persone vicine e nel tempo stesso riuscendole ad avere sempre intorno a lei.

Nonostante ciò è riuscita anche a crearsi un amante più giovane.

Quale vittima sacrificale migliore, allora, per chi indaga sulla morte del marito, John appunto, morto per un fatale avvelenamento da arsenico, che solo la moglie può avere ucciso? Il fatto è che il medico della vittima, Glen  Brougham, che è anche suo amico.

Il romanzo sembrerebbe procedere come un legal-thriller, un romanzo le cui fasi salienti sono ambientate nell’aula di un tribunale: infatti, gran parte del romanzo è dedicata alla discussione davanti al coroner affinché egli decida il procedersi per omicidio, incidente o suicidio. Tuttavia la vera natura dell’inchiesta poliziesca lo apparenta ad un romanzo ad enigma o Whodunnit classico, giacchè, una volta acquisito che John Waterhouse è  stato ucciso con una dose di arsenico in una sola somministrazione, e non con molteplici, cosa che sarebbe successa nel caso il farmaco prescritto da Glen a John per il suo malanno gastrico fosse risultato avvelenato e fosse stato assunto in più somministrazioni, e una volta acquisito quindi che egli è rimasto ucciso per avvelenamento acuto da arsenico, resta da vedere il come il veleno gli sia stato somministrato: prima la polizia sospetta che sia stato avvelenato tramite il farmaco di Glen che sia stato da lui preparato con imperizia, poi, quando si accerta in seguito ad analisi chimiche che esso non contiene, neanche in minima parte, sedimenti di arsenico, allora si parla di torta al limone, poi di sidro, poi ancora di caramelle, poi di uno scambio di boccetta e infine di omicidio perpetrato tramite una boccetta simile a quella di Glen, e ogni volta il colpevole individuato è diverso: è lo stesso procedimento utilizzato in The Poisoned Chocolate Case, in cui ad ogni ipotesi è collegato un responsabile diverso l’uno dagli altri, che li esclude completamente.

A differenza con l’altro romanzo, questo non prende minimamente in esame l’indagine affrontata con modalità psicologiche ma solo sull’esame dei fatti accertati, e su questi vengono orientate delle ipotesi suggestive, volta per volta, una dopo l’altra: a dare il ritmo al romanzo non vi pensa il carattere dei personaggi (che pur è messo in luce), né l’analisi dei moventi  o le opportunità in base alle quali si sia deciso di uccidere, ma solo la decisione del coroner (talora la descrizione degli interrogatori ha dei toni macchiettistici, come quando il coroner deve interrogare la cuoca tedesca, e distoglierla dalla sua fissazione della perfezione ariana) che si tratti di omicidio, incidente o suicidio, quindi neanche una indagine vera e propria quanto solo una parte introduttiva all’indagine, un giudizio che possa stabilire, in seguito a eventi comprovati, che sia necessario o meno un supplemento di indagine, oppure no, a seconda che sia omicidio (e allora si debba cercare il colpevole) oppure incidente o suicidio (e allora si decide di soprassedere).

Ma anche quando il verdetto della corte ha stabilito trattarsi di suicidio, e quindi l’interesse dei mass-media è scemato, l’indagine del singolo, non affidata alla polizia ma a Scotland Yard, è fatta propria dal narratore Douglas Sewell, frutticoltore, che, nonostante si sia proclamato all’inizio del libro, con umiltà e poca autostima personale, l’ultimo degli ultimi, riuscirà, escludendo tutta una serie di ipotesi, ad individuare l’assassino. Sembra quasi che nel singolare destino di Sewell riecheggino due famosi passi evangelici: “Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi” (Matteo 20, 16), e ancora : “..chiunque si innalza sarà abbassato,  chi invece si abbassa sarà innalzato” (Lc 14, 11).

Perché di omicidio si tratta, seppure particolare: perché se infatti di omicidio si tratta, nessuno voleva uccidere John. Eppure è stato ucciso! E l’assassino voleva uccidere. E allora come si spiega il tutto? Douglas lo fa con un ragionamento straordinariamente semplice, e nel tempo stesso, associando vari fatti gli uni agli altri, riesce a individuare il vero omicida. Il fatto è che però non c’è nessun indizio materiale che colleghi l’omicida alla sua vittima, ma solo il ragionamento di Douglas e le ammissioni dell’omicida, che però affermerebbe il contrario di quanto ha detto oppure affermerebbe che le asserzioni altrui fossero del tutto infondate, e così l’omicida la fà franca.

Abbiamo già visto che tra i due romanzi vi sono delle similitudini e delle differenze.

Sostanzialmente le somiglianze riguardano il fatto che:

– i due romanzi trattano un avvelenamento con arsenico;

– in entrambi, la vittima è abbiente dal punto di vista finanziario:

– il presunto omicida è la moglie;

– la moglie ha un’amante, come la stessa vittima;

– in entrambi i romanzi vi sono riflessioni di carattere socio-politico:

nel primo, viene rimarcato in più di un passo che la moglie della vittima, quella che all’inizio è accusata di omicidio, è una straniera ed è francese : “sono sempre così gli stranieri. Molto furbi” (Anthony Berkeley : Il veleno di Wychford, The Wychford Poisoning Case, 1926 – Trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori, N.1077 del 2005 – Cap.15 pag.142); “Lei era francese, vede –disse vagamente Allen. – Vuol dire che i francesi non hanno senso Morale, in base alle convenzioni correnti?” (Idem, Cap. 17 pag. 168);

nel secondo sono caratterizzati negativamente gli estremismi politici dell’epoca, identificandoli in determinati personaggi: la cuoca austriaca Maria Pfeiffer è nazista (già prima dell’Anschluss del 1938, in Austria la presenza nazista era fortissima), Rona Brougham è di tendenze bolsceviche.

– in entrambi i casi la polizia ha un ruolo secondario;

– in entrambi i casi, il romanzo comincia con una colazione, in cui si nomina la marmellata;

– in entrambi i romanzi uno dei coniugi è ipocondriaco: nel primo è il marito, nel secondo è la moglie:

– e soprattutto, in entrambi i casi, un capitolo è intitolato: Tutto sull’arsenico (cap.5 pag. 44 di The Wychford Poisoning Case e Cap. 7 pag. 105 di Not to Be Taken).

Invece, le differenze sono principalmente:

– nel primo romanzo la quantità di arsenico trovata in corpo e quella ritrovata in casa, complessivamente sono troppo rilevanti, così come nel secondo sono così irrisorie da aver scatenato una ridda di sospetti in merito al propinamento del veleno:

– in ambedue i romanzi vi è una riflessione sociale sul mondo femminile, ma mentre nel primo la caratterizzazione in fondo è sfavorevole (ne deriva un’anima di fondo misogina di Sheringham) alle donne, nel secondo romanzo invece esse sono valutate molto positivamente (sia Rona Brougham che Frances Sewell);

– mentre nel primo romanzo la figura dell’investigatore è impersonata da Sheringham, un personaggio con una ricca cultura personale ed una grande autostima personale (ricalca sommariamente l’investigatore di quel periodo storico, alla Philo Vance), nel secondo è assimilata alla figura di un agricoltore, con una sottostima personale conclamata;

– mentre il primo romanzo ha un’atmosfera frivola ed esuberante, nel secondo invece è plumbea e mesta, come presagendo una tragedia imminente.

Parrebbe a me, quindi, come se Berkeley, in un secondo tempo, fosse ritornato sul tema affrontato oltre dieci anni prima, variandolo in alcuni tratti e fornendo una soluzione diversa, ma sostanzialmente mantenendo intatte alcune caratteristiche. E’ chiaro che l’origine del plot è sempre quella: il delitto Maybrick.

Anche qui un uomo è la vittima: lamenta dolori di stomaco, il suo medico gli da una cura ma lui se ne frega. Il giorno in cui muore, qualcuno comincia a sospettare un avvelenamento: è Rona, ma Glen, suo fratello è scettico. Rona cerca di curarlo, ma John muore.

La moglie, ancora una volta, come nel caso Maybrick e poi come nel precedente romanzo, viene accusata della morte del marito, quando interviene in causa suo cognato, l’unico fratello del marito, Cyril, che sospetta che la morte del fratello non sia naturale. Di più ancora, lui vorrebbe che non lo fosse, perché così la moglie sarebbe tagliata fuori dal testamento, le cui sostanze andrebbero, pensa, al figlio. Il fatto è che poi si viene a sapere che la moglie aveva un’amante, ma anche John: anzi lui, di amanti ne aveva avute tante. E si viene anche a scoprire che, come tutti o quasi i romanzi che coincidono col secondo conflitto mondiale, anche qui c’è una vicenda spionistica: c’è una spia ritenuta tale ma che invece non lo è (Mitzi Bergmann che sparisce nell’arco di una notte portando con sé dei documenti e ritorna in Germania, è solo una povera ragazza, ebrea, che per salvare i familiari è costretta a ritornare in patria, dove non si sa, ma si immagine che fine farà) e c’è invece una spia di cui nessuno sa ma che invece si rivela (proprio John Waterhouse, ingegnere e spia nell’ombra, che si è servito per la sua attività di molte amicizie femminili, anche intime): tuttavia la vicenda spionistica entra di straforo nella storia, perché legittima solo il ritrovamento di scomparti segreti, in cui, oltre ad incartamenti, si trovano ogni genere di farmaci, pericolosi e non, e veleni.

Per il resto i romanzi sono straordinariamente simili, e nella concezione, e nelle caratteristiche dei personaggi! Salta agli occhi, il giudizio sulle donne, che Douglas riserva in più occasioni ai personaggi femminili del romanzo: mentre infatti nel precedente romanzo, se si vede bene, le donne sono tutte o quasi caratterizzazioni deboli se non negative (la cameriera Bower è vendicativa e perfida; “l’amica a parole”della padrona di casa, la Saunderson è infida e assai poco amica  della padrona di casa; Sheila Purfoy è intelligente ma vista come una bambina viziata; la madre di Sheila è un personaggio nell’ombra; la moglie di Bentley gestisce la sua relazione extraconiugale, come una faccenda di letto, senza trasporto emotivo; la signora Allen è altera e dura come un macigno), in questo esse sono quasi tutte caratterizzazioni positive o comunque forti:

Infatti la cuoca austriaca è fiera di essere una cuoca perfetta: “…Io sono perfetta cuoca. Molto prava. Cotoletta viennese, torta mele, patate fritte..ah!” (Anthony Berkeley : Il veleno è servito, Not to Be Taken, 1937 – Trad. Mauro Boncompagni – Il Giallo Mondadori N.3099 del 2014 –Cap. 8 pag. 131).

Rona è un personaggio forte: “Devo ribadire che Rona è una donna eccezionale” (idem, Cap.2 pag.23); pur essendo laureata a Oxford in Lettere Classiche col massimo dei voti e la lode, pratica la lavanda gastrica a John supponendo un suo qualche avvelenamento, pur non essendo un medico, e del resto tutto il villaggio, la ritiene più brava  del fratello:

“..No, non possiamo aspettare Glen. Vorrà dire che la lavanda gastrica te la farò io…Rona preparava i farmaci prescritti dal fratello, perciò conosceva lo posizione di ogni barattolo nell’ambulatorio…la sentii elencare la pompa per il lavaggio gastrico..il bismuto, la morfina in compresse, l’ossido di magnesio e l’idrossido ferrico” (Idem, Cap.1 pag.16); ed è depositaria di quel materialismo etico, proprio dei bolscevichi ma anche dei nazisti, che considera un elemento debole, inutile alla società se non addirittura dannoso:

“…Se intendi dire, come ha osservato Harold, che io giudico la gente prima e soprattutto per la sua utilità sociale, bè, sì, quiesto è vero. E non temo di ammettere che credo nell’eliminazione fisica dei membri inutili della collettività, e certo nell’eliminazione di coloro che sono di ostacolo a quelle persone che invece fanno progredire la società” (Idem, Cap. 2 Pag.26).

A sua volta Angela Waterhouse è un personaggio forte: solo che ritenendosi debole rispetto agli altri, meno apprezzata dagli altri rispetto al marito,si è inventata una malattia che l’ha messa al centro dell’attenzione. La sua forza è riconosciuta da tutti ( o quasi):

“Quanto ad Angela, credo che…lei farebbe scattare un complesso di inferiorità in qualsiasi uomo” (Idem, Cap.2 pag.33).

Anche Frances, la moglie di Douglas Sewell, il frutticoltore che scoprirà l’omicida, è una donna forte e risoluta, quando è necessario: “ – Glen avrà fatto qualche stupido errore finendo per mettere i componenti sbagliati nel preparativo. In ogni caso.. – e Frances mi mostrò di colpo un oggetto che fin lì si era tenuta dietro la schiena – in ogni caso, eccola qui. Fissai la boccetta di medicinale semivuota…” (Idem, Cap. 1 pag. 20).

Vorrei però mettere in rilievo come il giudizio debba essere valutato in relazione ai due differenti contesti e mondi sociali: Roger Sheringham come abbiamo detto, è uno scrittore vanesio e presuntuoso che si crede giustificato a giudicare la società, dal successo che la sua prima opera ha ricevuto presso il pubblico, e sostanzialmente appartiene alla buona borghesia cittadina; Douglas Sewell invece appartiene ad una classe agiata di campagna, e come tale, tende ad avere della vita una concezione più pratica, più rispondente alla realtà e meno civettuola e frivola di quella che possa avere Sheringham. Inoltre i giudizi risentono anche delle mutate condizioni socio-politiche in cui i due romanzi sono stati concepiti: gli anni ’20 radicalmente diversi dalla fine degli anni ’30.

La seconda differenza sostanziale tra i due romanzi, sta nel finale: quello del primo romanzo rispecchia lo stile quasi da Divertissement del romanzo stesso, finendo, se mi si permette il termine, con una “paraculata”, in stile con l’andamento del romanzo; il finale del secondo romanzo in ordine cronologico, rispecchia invece la disperazione quasi da tragedia greca, che è propria del plot: il Fato complotta con l’omicida, e ciò che ne deriva è la morte di John Waterhouse. Il romanzo è una bomba ad orologeria, che scoppia al momento opportuno, ma il cui esplosivo e detonatore, a ben guardare, sono inseriti in bella vista nelle prime pagine del romanzo: bisogna solo saper discernere; e non è affatto facile.

Toccherà all’ultimo degli investigatori, Douglas Sewell, discernere la verità dalle bugie, negando volta per volta le soluzioni sbagliate: prima che sia stato ucciso con delle caramelle dal fidanzato dell’amante, poi che sia stato ucciso dalla moglie in combutta col suo giovane amante, poi ancora che si sia ucciso, poi che abbia cercato di uccidere lui la moglie col sidro, ma..il veleno non era nella medicina di Glen (che Frances ha fatto sparire dopo la morte di John, per paura che il medico avesse sbagliato qualcosa nella composizione del farmaco), non era nello sherry che a casa sua Francese aveva offerto a John, e non era neanche nel sidro. NO. E non c’è stata neanche una congiura di John e del vero omicida contro Angela Waterhouse. NO. L’omicida ha agito da solo ma ha ucciso John per una tragica fatalità. Ancora una volta c’è una serie di ipotesi, ognuna che porta ad un esito diverso, partendo dalle medesime basi indiziarie.

Sullo sfondo, la grandezza di Berkeley, un autore che purtroppo, dal 1939 in poi, non scrisse più romanzi: qualcuno ipotizzò una eredità improvvisa. Io penso che Berkeley con  i suoi romanzi non avesse da dire altro, all’infuori di quello che già aveva esternato. Così, se il Roger Sheringham del 1926 rappresentava la fiducia nei tempi, il Douglas Sewell probabilmente incarnò il pessimismo esistenziale di Berkeley, dinanzi all’immane tragedia che gli si stava profilando davanti.

 

 

Pietro De Palma 

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14 Responses

  1. Paola Montonati

    Davvero molto belle ed interessante questo articolo, Piero, grazie!

  2. Alberto

    Aspettavo da tempo un articolo del signor De Palma, come sempre non delude mai. :)

  3. Stefano

    Un articolo molto interessante, complesso, lungo e pieno di spunti. Ma ho letto il primo tempo fa (ancora non il secondo) e concordo su gran parte dei giudizi, anche valutativi. Personalmente amo poco il Berkeley primissima maniera (ma è un altro discorso).
    Bisogna ragionare molto su articoli come questo, leggerò presto Not to be Taken: bravo Piero.

  4. Sergio (Tipping My Fedora)

    Commento davvero grandioso Piero – complimenti (o come diciamo a Londra, “well done old chap!”)

  5. Antonino Fazio

    Al solito, una dissertazione complessa, interessante e ricca di spunti. Mi viene da pensare a cosa verrebbe fuori, se si raccogliessero questi articoli di Piero in un unico volume. Chissà che prima o poi… :-)

  6. Mauro Boncompagni

    Piero, ho letto adesso il tuo pezzo per il Blog, che apprezzo molto anche perché mi pare un atto d’amore – e di enorme rispetto – per un autore che io, come sai, ammiro notevolmente. Le analogie che cogli tra i due romanzi mi paiono azzeccate, come soprattutto quello che dici sul tipo di ars combinatoria che contraddistingue le opere di Berkeley rispetto a quelle di un autore come Carr (o Connington, aggiungi tu). Condivido anche le osservazioni sull’influenza dei casi di criminologia reale sulla fantasia di Berkeley, che l’autore stesso ha più volte ribadito. D’altronde, i suoi studi sul caso Crippen o sul caso Maybrick (inediti in italiano) stanno lì a dimostrarlo. L’insistenza sul tema del veleno, secondo me, indica anche una certa ambiguità psicologica che l’assassino possiede spesso nei romanzi di Mister Cox, come vedrai, e vedranno i lettori, anche nella sua ultima opera, “Death in the House”, che spero apparirà nel Giallo Mondadori entro l’anno.
    Sul perché Anthony Berkeley Cox abbia smesso di scrivere ci sono molte ipotesi, ma la più probabile per me è quella rivelata in una lettera dell’autore a George Bellairs: gli era passata la voglia.
    Quanto al pessimismo, certo, condivido (almeno in parte), ma tieni conto che la sua ultima VERA opera, il romanzo a firma Francis Iles, “As for the Woman”, ha una conclusione di una ironia mordace. Insomma, Cox ha smesso di scrivere congedandosi dal suo pubblico con una sghignazzata, non con una lacrimuccia.

  7. Piero

    Il guaio è quel “prima o poi”, caro Antonino. Credi che se mi venisse offerto non accetterei? Il guaio è che nessuno per il momento mi ha mai dato questa opportunità.
    Grazie comunque.

  8. Piero

    Pubblicato pochi istanti fa sul mio blog italiano, articolo su OSCURI PRESAGI(Black Plumes, 1940) di Margery Allingham, pubblicato ne Il Giallo Mondadori l’anno scorso:

    http://lamortesaleggere.myblog.it/2014/03/31/margery-allingham-oscuri-presagi-black-plumes-1940-trad-igor-longo-il-giallo-mondadori-n-3077-del-marzo-2013/

  9. Piero

    Ringrazio Mauro per le belle parole espresse a riguardo di questo articolo.
    Le sue osservazioni sono sempre molto gradite.

  10. Alessandro B.

    Ho letto entrambi i libri di Berkeley ed ho apprezzato il saggio di Piero che, come sempre, è molto acuto nelle sue osservazioni.
    Credo anch’io, come il sig. Fazio, che se Piero decidesse di raccogliere i suoi scritti di critica letteraria in un volume ne verrebbe fuori un lavoro sicuramente interessante.

  11. Piero

    Ci devo pensare. Ho da parte del materiale che non ho ancora editato.
    La volontà c’è da parte mia, bisogna vedere se vi sia anche da parte dei altri. Chi possano essere questi altri poi è tutto un dire.

  12. Piero

    Segnalo a chi non l’abbbia letto e vorrebbe farsene un’idea, che sul mio blog ho postato un articolo su un altro romanzo di Peter Lovesey:

    http://lamortesaleggere.myblog.it/2014/04/04/peter-lovesey-fantasma-cribb-case-of-spirits-1975-trad-mauro-boncompagni-il-giallo-mondadori-n-2773-del-2002/

  13. Piero

    Segnalo ancora l’uscita di altro articolo sul mio blog, questa volta uno storico di Jonathan Latimer:

    http://lamortesaleggere.myblog.it/2014/04/12/jonathan-latimer-destinazione-sedia-elettrica-headed-for-hearse-1935-trad-bruno-tasso-i-classici-del-giallo-mondadori-n-726-del-1994/

  14. Piero

    Ancora un altro articolo sul mio blog. Questa volta si tratta di un romanzo bellissimo e assai poco conosciuto di Carr :

    http://lamortesaleggere.myblog.it/2014/04/17/john-dickson-carr-colpo-pistola-the-witch-of-the-low-tide-1961-trad-m-francavilla-i-classici-del-giallo-mondadori-n-700-del-1993/

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