Edgar Rice Borroughs

marzo 20th, 2012

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Due dei più esperti critici italiani del settore – Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco – hanno scritto a proposito di Burroughs: “Tutta questa massa di letteratura, che pure ha fatto vendere più di cinquanta milioni di libri, è quasi completamente priva di ogni valore artistico. Burroughs stesso attribuiva la sua popolarità al fatto che le sue storie non imponevano al lettore il minimo sforzo intellettuale. Non vi è caratterizzazione, eccetto che i Buoni sono buoni e i Cattivi cattivi… I suoi libri sono ottime opere per ragazzi, al livello, per fare un esempio italiano, del miglior Salgari” (nel dizionario Arcana, Sugar 1969). Burroughs appartiene insomma a quella sorta di Legione straniera della narrativa che, pur avendo avuto la capacità di influenzare le fantasie di alcune generazioni di lettori, non possiederebbe virtù estetiche al di là di quelle che servono ad ammaliare i lettori più giovani e meno provveduti. Esempi illustri non mancano nel XIX secolo ma anche nel XX secolo: Salgari stesso, Frank Reade, Edgar Wallace. Se oggi nessuno legge più le avventure degli Hardy Boys, non si vede perché bisognerebbe istruire un processo a favore del loro recupero, o di quello di ERB (come lo chiamavano familiarmente gli appassionati, usando le sole iniziali).
Il motivo di un’eventuale indulgenza, nel caso di Burroughs, va ricercato in due nomi: Barsoom e Tarzan. Il primo è l’appellativo del pianeta rosso secondo il linguaggio dei suoi antichi abitanti. Con Barsoom, lo scrittore che a volte si firmava con lo pseudonimo di Normal Bean (“Testa a posto”), creò in un colpo solo il genere della fantascienza escapista e avventurosa, quella che si sarebbe evoluta più tardi nella space opera. Quanto alla seconda invenzione, l’uomo della giungla, va oltre le innocenti fantasie di poteri e avventure esotiche per entrare nel terreno dell’antropologia, dell’insofferenza psicologica verso un mondo sempre più tecnico e spersonalizzato, cui Burroughs contrappone un mito autosufficiente. Al “libero servaggio” del lavoro salariato, Tarzan preferisce la figura del libero selvaggio, non il primo ma il più celebre di una serie che troverà altre icarnazioni nel XX secolo.

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Viaggio al termine del purgatorio

ottobre 9th, 2011

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Da non perdere il romanzo di questo mese, un capolavoro offerto nella migliore edizione di sempre.

«L’occhio del purgatorio: “Viaggiare nella causalità” – Il tempo della mosca, quello della mucca e quello dei batteri – L’espediente di Dagerlöff – Cibo già digerito, vino che è già piscio – Critica dell’ideologia quotidiana – “Non vedo più il nuovo” – La fotografia – Vedersi morire allo specchio – Il sole pallido…» E’ il sommario del lungo intervento con cui Wu Ming 1 ha parlato del romanzo di Jacques Spitz alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, il 1° giugno 2011.  Il lettore curioso ne trova la registrazione audio al sito http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4353,  dove potrà rendersi conto di come L’occhio del purgatorio – un piccolo capolavoro del ‘900 – venga accostato non casualmente a un altro grande testo sulla visione del futuro, “Il continuum di Gernsback” di William Gibson. Anzi, in entrambi i casi è possibile tracciare una «differenza tra futuro e “presente invecchiato” simile a quella già introdotta da Fredric Jameson nel suo Archaeologies of the Future (2005)», e quindi «tra “programma utopico” e “impulso utopico”.» Il critico può così «prendere di petto il problema del tempo e del controllo capitalistico sui tempi.» Passando a un piano più esplicitamente politico, Wu Ming 1 parla poi «del rischio che i movimenti subiscano tempi e ritmi del potere e non decidano in autonomia le proprie “scadenze”.» 

L’attualità del romanzo, e più che l’attualità la sua profondità, non sono dunque in discussione. A quasi settant’anni dalla sua pubblicazione originale e a poco meno di quaranta dalla prima edizione italiana, per merito dell’Urania di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, il libro conserva tutta la sua freschezza artistica, che ce lo fa amare anche a prescindere dai temi importanti che tocca. Il suo argomento è il vedere e, purtroppo, il vedersi calati in un universo caotico ed estraneo. Ma cosa vuol dire “vedere”? Facendo alcune ricerche su internet – mezzo indispensabile ancorché sospetto, e che funziona meglio come caleidoscopio che non come disco combinatore – abbiamo cercato invano una risposta compiuta come quella che viene dal romanzo. Ci siamo imbattuti, di volta in volta, nel blog di una persona che stava perdendo la vista; in varie voci enciclopediche su Dante e San Lorenzo, protettore delle anime del Purgatorio; sulla notizia (ghiottissima) di alcuni inediti di Jacques Spitz da poco usciti in Francia, e, dulcis in fundo, nel sito della Wu Ming Foundation con il pezzo riportato sopra.

Ma vedere significa ben altro. Fra le altre cose, vuol dire amare Jacques Spitz come lo amiamo dal giorno della sua fulminea rivelazione (1973). Tenere una copia di consultazione dell’Oeil du Purgatoire sempre pronta, in una tasca segreta delle ghiandole lacrimali. Tornare a parlarne come di un indispensabile vademecum della Visione assoluta: quella che non fa affidamento soltanto sulla potenza del cristallino, della retina e del nervo ottico, ma – come l’ultra-vista di Superman – su una rifrazione d’ordine superiore.

Nel romanzo, a permettere lo sviluppo di tale straordinaria facoltà è un bacillo (c’è una ricetta chimica anche dietro la scoperta dell’invisibilità da parte di Griffin, l’inventore di Wells diffidente della razza umana quanto lo è il Poldonski di Spitz). I sali wellsiani e il parabacillo della lepre siberiana, tuttavia, non sono che lo scalino per salire al livello dell’ottica trascendente, quella che comprende nei suoi calcoli la nozione d’infinito. Grazie all’esperimento del biologo Dagerlöff e alle disavventure della sua cavia involontaria, il pittore Poldonski, frasi proverbiali come “La bellezza è nell’occhio di chi guarda” o il suo opposto, “Sembra tutto giallo all’occhio dell’itterico”, acquistano un senso più ampio e definitivo. Lungi dall’esprimere un trionfo di soggettività visuale, quelle intuizioni testimoniano un fatto sorprendente ma in fondo semplicissimo: l’occhio trasformato – l’occhio interiore – percepisce il panorama autentico, cioè la situazione del mondo; mentre quel che vediamo alla luce di tutti i giorni è un’ipocrita frazione dell’esistente. E non solo dell’esistente ma del possibile: perché in Spitz, come in Wells, il risultato consiste in un allargarsi esponenziale della possibilità.

Circostanza propizia, nell’Occhio del purgatorio Poldonski era un guardatore acido già prima dell’esperimento. Si direbbe un uomo con i peli sulla pupilla, se la frase avesse un senso (e forse ora ce l’ha). Artista senza il genio che vorrebbe, amante senza il cuore che ci vorrebbe, spregiatore del consesso civile a parte le prostitute o le avventure facili che ha collezionato in numero di 300, questo Don Giovanni della Parigi bohèmienne si sente amico soltanto della porta di casa… quando rifiuta di aprirsi per lasciar entrare un visitatore.

A paragone di una simile essenzialità, di una simile durezza, la narrativa corriva e non-filosofica di altri autori del tempo perde ogni forza. Essenzialità dell’implacabile ironia spitziana scavata nella roccia del presente; durezza come nei sottoprodotti biologici che rifiutano di uscire da dove dovrebbero, e che costa sforzi penosi espellere quando pure lo si può. La conclusione di Poldonski è lapidaria: “Dicono che il mondo fa cag…, una volgarità che non ha nemmeno la scusante di essere esatta. So benissimo che esistono le coliche, ma non è certo quella la soluzione…!”

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时空 China Futures: Uno sguardo al cinema SF cinese

novembre 18th, 2010

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Empires of the Deep è in lavorazione da oltre un anno nei teatri di posa di Pechino grazie a 100 milioni di dollari investiti di tasca propria dal costruttore miliardario Jon Jiang, un neo-tycoon che si paragona volentieri a George Lucas e James Cameron (International Herald Tribune, 16/06/2010). Basterà il suo colossal in inglese e 3D, varie volte interrotto per mancanza di liquidi, a lanciare in grande stile la fantascienza “100% made in China”?

Il popolare divo e produttore hongkonghese Louis Koo esprime dei dubbi diffusi laggiù: “Pur avendo in Asia compagnie specializzate in effetti speciali, non siamo ancora pronti. Non perché ci manchino i soldi, è questione di tecnologia. Si deve anzitutto investire moltissimo nella formazione del personale creativo. Oltre ad esperti di computer graphics, abbiamo bisogno di team di professionisti di punta nei settori scenografie e make-up. Ci vorrà come minimo un decennio o anche più” (South China Morning Post, 3/IV/2010).

Jia Zhangke, autore cinese indipendente della sesta generazione, ha brillantemente utilizzato in Still Life (Sanxia haoren, Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2006) astronavi e alieni minimalisti. Inoltre, con The World (Shijie, 2004), tragicommedia ambientata in un luna park che riproduce in scala i grandi monumenti del mondo, Jia Zhangke ha prefigurato, e senza dubbio ispirato, l’Expo 2010 di Shanghai.

Avendola visitata quest’estate, posso confermarlo: i cinesi sanno più efficacemente e rapidamente di chiunque altro edificare dal vero il Mondo del Futuro, un mondo ecologicamente perfetto ove regna la regola “better city, better life” (tema dell’Expo). Però tuttora rifuggono dalle rappresentazioni fantasiose, positive o negative, del futuro.

L’ortodossia ideologica continua a irreggimentare la produzione cinematografica ufficiale, investendo pure la sf letteraria, magari in modo meno paralizzante, come dimostrano certi ruspanti racconti contenuti in questo volume. Propaganda e autocensura hanno svilito o sedato i non frequenti tentativi di fughe precorritrici verso l’utopia. Nell’ultimo ventennio si è preferito affidarle agli smaliziati cugini di Hong Kong, cineasti quali Wong Kar-wai, Stephen Chow, Wong Jing, imponendo anche a loro 2046 paletti da rispettare.

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L’Editoriale di Giuseppe Lippi: Gioco d’Agosto

agosto 1st, 2008

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Prendo spunto da uno scambio di messaggi con i nostri lettori (potete leggerlo qui) per improvvisare un editoriale allucinato, come si conviene all’agosto incombente. Per il momento saluti a tutti e… arrivederci presto!

Ad agosto fa così caldo che il cielo cade. Non è un modo di dire: il termometro segna I.F., il barometro specifica interruzione fiato. Adesso lo sapete, non è una scusa per tardare l’appostamento del nuovo editoriale.
Stanotte il ronzìo del ventilatore mi ha svegliato alle 3,39.
E ho visto il cielo cadere.
Come nel romanzo di Daniel F. Galouye in vendita questo mese, il cielo di Milano, basso, mi precipitava addosso. All’ultimo momento resta in bilico sul tetto di casa: lo spio da un triangolo di finestra aperta e alta su di me. A quell’ora infelice mi sembra che piombi dritto sulle imposte.
Ora, immaginate la posizione. Un uomo supino nel suo letto di spine (la metafora è crudele, l’afa la merita) alza l’occhio a uno spicchio di cielo greve e s’accorge che è infilzato all’imposta. Pende dall’angolo di legno ingrigito come un vetro rotto, a rischio di venire ancora più giù. Al suo posto, nell’etere, una specie di bulbo bianco ― di vuoto abnorme ― manda in malora ogni velleità di definirlo “il vuoto”. Il cielo è caduto e al suo posto c’è un’altra cosa, il male, forse un occhio fatto di solo bianco.
Non posso dormire.
Ho paura delle mie stesse parole. “Il cielo è caduto”, ho detto, ed ecco che un pezzetto m’è finito nell’occhio, una scheggia, un frammento, ma non posso richiuderlo. Non è solo insonnia, è un attentato! Come la sabbia buttata in faccia dal mago del celebre racconto, anche la polvere di cielo ― dell’ex-cielo ― fa un bruciore d’inferno.
Semiaccecato e provatamente insonne, cerco di pensare allo straordinario avvenimento.
E mi domando: una volta precipitato, sarà ancora “cielo”?
Chi lo ha abbattuto?
Perché lassù è tutto bianco senza luce?
Ci vorrebbe, per capirlo, una poesia metafisica di Gianni Tulisso. Andate a ripescarla nel “Marziano in cattedra” (n. 330 o giù di lì).
Che il cielo stracada, se vuole, non so che farci.
Però, vorrei sapere. (L’utilità della fantascienza è che aiuta ad accettare l’inaudito.)
Allora, da tutto questo miracolo qualcosa posso tirar fuori anch’io. Quant’è bella la metafisica, per esempio. Ho un lettore affezionato che si chiama Stefano il quale, stupendosi che al mattino mi levi anzitempo (non sa che non ho chiuso occhio per metà della notte, ché il cielo m’acceca!), protesta in nome della noncentranza. Sostiene, cioè, che la metafisica con la fantascienza c’entra niente. E’ strano, sarà un vizio di forma, ma io penso che a volte c’entri moltissimo. “I nove miliardi di nomi di Dio” di Arthur Clarke? La città sostituita di Philip K. Dick? Assurdo universo di Fredric Brown?
Eppure, Stefano e i lettori che la pensano come lui…
Quello che mi pare di capire è che a loro non vada un certo tipo di linguaggio, ma io faccio osservare, con calma, che è solo questione di intendersi. Metafisica vuol dire: che va al di là della fisica e quindi, a rigore, quasi tutto quel che passa il convento fantascientifico.
Ad esempio:
― L’iperdrive;
― L’iperspazio;
― Gli universi paralleli;
― La storia alternativa;
― Gli extraterrestri (o le macchine) tanto intelligenti da sembrare dèi;
― I viaggi nel tempo.
Mi fermo qui, ma potrei continuare.
L’idea che il cielo mi cada in testa perché è venuta meno la volontà che regge l’universo non è affatto peregrina, anzi. E’ fantascientifica. Io credo che i lettori vogliano esprimere semmai, con la loro incredulità, un’altra critica, quella della ragion pura. L’anatema kantiano contro ogni principio assoluto, essendo venuti i tempi della ragione…
Da questo punto di vista, rispetto la loro posizione. Ma, e il paradosso? Dove mettiamo il paradosso? Buttiamo davvero a mare i racconti di Clarke, di Dick, di Brown che ho ricordato prima?
No, la risposta è no. Non li buttiamo affatto, semmai li prendiamo come sogni (e non sonni) della ragione. I guai, con la metafisica, cominciano quando qualche capo setta vuole spacciarla per dogmatica verità. Se questo avviene, è bene combatterla con forza, e anzi guardate che vi dico: se domani apparisse un capo setta che vuole proclamare la religione della fantascienza, io mi dissocio.
Non ci sto.
Se invece mi parlano di velo di Maya, miti, sogni, Borges e mysteri (in un saggio, in un romanzo, in un racconto…) questa è quasi sempre musica per le mie orecchie.
Perché leggerei fantascienza, altrimenti?
Non m’interessano solo i mondi visibili, ma gl’invisibili.
Mi piacciono gli antimondes.
“Urania”, la sua parte per la divulgazione d’una corretta patafisica l’ha fatta. Il punto nero di Aldo Palazzeschi (n. 758) è un case in point; Il cabalista di Amanda Prantera (n. 1280) è un esercizio elegante; “Scendendo” (n. 462) di Thomas M. Disch è un racconto scioccante che si può rileggere in chiave sociologica, ma l’impianto è molto più terribile. L’altra realtà di Henry Kuttner (n. 1132) ha un inizio che sembra fatto apposta per mandare in pezzi la ragione. Per tacere della raccolta più conturbante di tutte, Essi ci guardano dalle torri di J.G. Ballard (n. 371).
Ma il diploma, la laurea ad honorem spetta a Stanotte il cielo cadrà di Daniel F. Galouye, dove non c’è più salvezza sulla terra, la luna, Marte o nelle spirali delle nebulose più lontane. Perché il demiurgo s’è scosso nel sonno e quell’occhio bianco mi fissa da dov’era il cielo.
La fantascienza radicale non si ferma al solo livello della veglia. Va oltre, dentro i sotterranei. Esplora le catacombe dello spaziotempo, si avvicina alle fondamenta.
E quando le tocca, l’universo trema.
Ora, far tremare le fondamenta del cosmo (fabbricate da noi, ideate da noi, investigate dai nostri pensatori) significa mettere radicalmente in dubbio la percezione che avevamo dell’eterno arbitrio. Nobile operazione, fantascientifica quanto poche altre.
Ma ora basta: in fondo, dicevamo tutti la stessa cosa. Vorrei solo che al giorno d’oggi ci fosse più metafantascienza. Più semplici concetti provocanti, immagini apocalittiche, specchi dell’assurdo.
Come l’agosto folle, assurdo per definizione.
Come il cielo che mi fende l’occhio.
Come scienze impazzite che si rivoltano a mo’ di maniche d’una camicia. Vostro è il mese più assente dell’anno, fantascienze.

Giuseppe Lippi

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