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Ian Watson

giugno 2nd, 2014

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Notissimo per aver scritto il soggetto cinematografico di A.I. Iintelligenza artificiale (il film di Stanley Kubrick-Steven Spielberg tratto dal racconto di Brian W. Aldiss), Ian Watson (n. 1943) ha esordito nel 1969 con il racconto “Roof Garden Under Saturn”, apparso sulla rivista “New Worlds”. A partire dal 1976, questo ex-insegnante d’inglese ed ex-professore di futurologia al Politecnico di Birmingham (con relativi corsi sulla fantascienza) si è dedicato alla letteratura a tempo pieno. Diversi romanzi e molti racconti sono apparsi anche in italiano, dove la sua opera è stata costantemente seguita da “Urania”. Il romanzo d’esordio di Watson, The Embedding (1973), è uscito – con il titolo Il grande anello, 1979 – nella collana “Sigma” di Moizzi, che ha presentato diverse opere notevoli degli anni Settanta; mentre quello stesso anno vede l’inizio delle traduzioni di Watson nella nostra collezione, che fa uscire Miracle Visitors del ’78 come La doppia faccia degli UFO. L’anno successivo, 1980, è sempre “Urania” a proporre un’importante antologia apparsa in Inghilterra nel ’79, The Very Slow Time Machine (Cronomacchina molto lenta). Come autore di racconti Watson è originale e prolifico: ne ha scritti oltre cento.

Benché le sue brillanti short stories continuino ad apparire in appendice a “Urania” e su altre pubblicazioni – una per tutte, la pluriristampata “Convention mondiale del 2080” – bisogna aspettare il 1986 prima di vedere un altro romanzo di Watson nella nostra lingua. E’ Il libro del fiume (The Book of the River, 1983), compendio di quattro parti uscite originariamente sul “Magazine of Fantasy and Science Fiction” e seguito poi da Il libro delle stelle (The Book of Stars, 1984; tr. it. 1988) e Il libro delle Creature (The Book of Being, 1985; tr. it. 1988), tutti apparsi sulle nostre pagine nella traduzione di Laura Serra. In questa edizione omnibus offriamo i due romanzi iniziali, mentre il terzo seguirà su “Urania”. E’ il tentativo di Watson di comporre un vasto affresco a metà tra la fantascienza e il fantastico, e gli conquista le simpatie di un pubblico più vasto. Nel 1990 la “Biblioteca di Nova SF” recupera God’s World del 1979 (Il pianeta di Dio), un romanzo a sfondo metafisico in cui la nostra razza riceve in dono la propulsione interstellare, ma solo un gruppo ristretto di individui viene scelto per raggiungere il pianeta dei donatori e incamminarsi sulla strada di un’imprevedibile trasformazione. Nel 1997 appare su “Urania” L’ultima domanda (Hard Question, 1996), un thriller tecnologico ricco di sorprese, e nel 2000 Superuomo legittimo (Converts). Intanto, nel 1999 l’Editrice Nord ristampa, nelle proprie collane, Il grande anello e La doppia faccia degli UFO, cambiando i titoli a entrambi: diventano rispettivamente Riflusso  e L’enigma dei visitatori. Nel 2002 esce su Urania Il mistero dei Kyber (Under Heaven’s Bridge, un romanzo del 1981 scritto in collaborazione con Michael Bishop). Nel 2004 Hobby & Work fa uscire Draco (id., 2002) e Harlequin (id., 2004). Nel 2005 replica “Urania” con L’anno dei dominatori (Mockymen, 2003), mentre Hobby & Work presenta I figli del caos (Caos Child, 2004).

Tra i romanzi che restavano inediti in Italia, e che “Urania” ha riproposto recentemente, Creatura del fuoco (1988) è uno dei più originali per concezione e sfondo storico, con un richiamo alle scoperte dell’alchimia che non suonerà fuori luogo in chiave fantascientifica; mentre rimangono da scoprire The Jonah Kit (1975), vincitore del premio British Science Fiction; The Gardens of Delight (1980), Deathhunter (1981), Chekhov’s Journey (1983), Queenmagic, Kingmagic (1986), Whores of Babylon (1988) e The Flies of Memory (1990) fra i testi più notevoli.

Nel giudizio di John Clute e Peter Nicholls, forse i migliori studiosi contemporanei della fantascienza inglese, “la narrativa di Ian Watson, a volte obbiettivamente ardua nella sua complessità, può essere vista come una vivace rivolta contro l’oppressione intellettuale e politica, ma anche come una dichiarazione dei limiti – almeno per quanto riguarda gli esseri umani – del concetto di realtà. Quest’ultimo, essendo stato creato su misura dei nostri ristretti canali percettivi, risulta soggettivo e parziale; il tentativo umano di accedere a realtà più complesse, attraverso metodi che vanno dalle droghe alle discipline linguistiche, dalla meditazione a un’educazione radicalmente innovata, non sarà mai completamente coronato dal successo. L’umanità è troppo limitata, troppo poca cosa per afferrare la realtà nel suo complesso. Ian Watson è forse lo scrittore di fantascienza contemporaneo che meglio sintetizza questi temi, e il meno illuso”.

 

G.L.

 

 

 

 

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Poul Anderson

giugno 2nd, 2014

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È ben nota a tutti i lettori di fantascienza la distinzione tra due modi diversi di intenderla e interpretarla: secondo tale distinzione esisterebbe, da un lato, una produzione attenta in particolar modo all’evoluzione della tecnologia, con le sue implicazioni sull’esistenza dell’umanità nel futuro. Come illustre precursore di tale concezione normalmente si citano il francese Jules Verne e, all’interno del genere, il suo stesso fondatore, Hugo Gernsback, che nel romanzo Ralph 124C421 + non sembra far altro che elencare situazioni future generate da invenzioni tecnologiche. Dall’altro lato un manipolo non sparuto di scrittori, prendendo le mosse dalle opere di Herbert George Wells, si propone di lasciare in prospettiva lo sfondo tecnologico e di focalizzare le storie sui valori dei protagonisti, sulle ripercussioni morali, psicologiche, sociali, degli eventi futuri. Tale produzione, definita normalmente “umanistica” per distinguerla dalla consorella, denominata “tecnologica” o “hard sf”, conta tra i suoi artefici personalità di rilievo come Theodore Sturgeon, Ray Bradbury, James Ballard e altri.

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Charles Sheffield

giugno 2nd, 2014

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Laureato in fisica, inglese ma da sempre in America, 

è uno scrittore che sa cosa voglia dire “hard sf”, 

la nuova fantascienza tecnologica.

 

Verso la fine degli anni Settanta vi è stato, in America, un imprevisto rifiorire della fantascienza tecnologica. Stimolata dall’esempio di autori che si erano affermati nei primi anni del decennio, fra i quali vanno subito indicati Larry Niven e David Gerrold, altri scrittori cominciavano a intravvedere le possibilità della nuova hard sf.  Negli anni Ottanta e Novanta sono apparsi sulla scena scrittori intelligenti e maturi che hanno saputo sfruttare questa occasione: Gregory Benford, Greg Bear, Roger McBride Allen, Allen Steele e lo stesso Sheffield, fino al caso clamoroso di Greg Egan (tutti ospitati nelle nostre edizioni). Charles Sheffield, nato nel 1935, è inglese di origine ma si è stabilito negli USA fin dalla metà degli anni Sessanta. Laureato in fisica e scrittore anche in campo scientifico, è da tempo considerato uno dei migliori autori di “hard sf” che il nostro genere letterario ci abbia dato dopo Niven. Di lui abbiamo pubblicato numerosi titoli: Quake pianeta proibito (n. 1274), Le lune fredde (n. 1305), Memoria impossibile (n. 1345) e Punto di convergenza (n. 1359). Charles Sheffield è autore altresì di numerose opere di divulgazione e saggistica. Nelle Sfere del cielo (2001) riprende l’ambientazione e alcuni personaggi di Caccia a Nimrod (The Mind Pool, 1993, pubblicato in Italia dall’Editrice Nord), romanzo di cui può essere considerato un seguito leggibile anche in modo autonomo.

Un mondo per gli Artefici (Divergence, 1991) è ambientato nello stesso universo di Quake, pianeta proibito (1990) e del successivo Punto di convergenza (1997), entrambi già tradotti nella nostra collana. Si tratta del cosiddetto “Heritage Universe”, dove scoperte e tecnologie di razze antichissime avranno un impatto inatteso sula civiltà umana: un tema poi ripreso e sfruttato da numerosi autori e che si rifà a un’originaria concezione di Arthur C. Clarke.

 

G.L.

 

 

 

 

 

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Jack Williamson o il trapasso del meraviglioso

marzo 24th, 2014

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La morte di Jack Williamson, avvenuta il 10 novembre 2006, ha privato la fantascienza di uno degli ultimi narratori che ne hanno vissuto la storia completa in quanto genere specializzato, dalla nascita delle prime riviste al XXI secolo. Un autore che ha continuato a scrivere prolificamente e che “Urania” ha seguito con attenzione fino ai suoi più recenti successi.

Nato il 29 aprile 1908 a Brisbee, in Arizona, Williamson è uno dei fondatori della sf formatasi sui pulp magazine tra le due guerre mondiali. Ha vissuto un’infanzia rurale in una regione degli Stati Uniti che da pochi anni aveva smesso di essere “frontiera” e i suoi ricordi di questo periodo sono molto suggestivi (come all’epoca di un trasloco con tutta la famiglia su un carro da pionieri). Il lettore può trovarli nella convincente autobiografia Wonder’s Child: My life in Science Fiction (1984), premiata con lo Hugo. Sensibile e piuttosto nervoso, si è sottoposto fin da giovane a un trattamento psicoanalitico, ma ha finito per trovare la sua autentica “cura” nell’amore per la fantascienza e nelle salde amicizie che quest’ambiente gli ha permesso di stringere: con Edmond Hamilton, più tardi con Frederik Pohl e James Gunn. All’inizio della carriera Williamson ha collaborato con “Weird Tales” e altre riviste del soprannaturale: storie fantastiche come quelle raccolte nell’antologia del 1975 The Early Williamson o il romanzo Golden Blood (Il popolo d’oro, 1933). Molti anni dopo tornerà alla fantasy, ma in chiave più matura, con il romanzo Reign of Wizardry (L’impero dell’oscuro, 1965, una rievocazione del mito di Teseo). Laureato con una tesi su H.G. Wells, autore cui nel 1973 ha dedicato un saggio (H.G. Wells, Critic of Progress), Williamson ha insegnato per gran parte della vita letteratura inglese all’University of Eastern New Mexico. In campo fantascientifico ha esordito su “Amazing Stories” e per molti anni ha continuato a collaborare con le riviste, fornendo racconti d’avventura basati sul cosiddetto “sense of wonder”: esempio classico ne è il famoso ciclo della Legione dello spazio (1934-39). All’avventura spaziale ha dedicato una matura riflessione in The Moon Children (I figli della luna, 1972), romanzo scritto dopo i primi sbarchi dell’uomo sul nostro satellite.

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Michael John Harrison

marzo 24th, 2014

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Dopo il successo di Luce dell’universo 

e Nova Swing, torna su “Urania”

un grande della sf britannica

 

Michael John Harrison è nato il 26 luglio 1945 e vive nella zona occidentale di Londra, facendo il critico per il “Times Literary Supplement” oltre che il romanziere.

Il suo sito internet è all’indirizzo:  HYPERLINK “http://www.mjohnharrison.com/index.htm” http://www.mjohnharrison.com/index.htm Ha pubblicato il primo romanzo, The Pastel City, nel 1971: “Urania” lo ha tradotto nel n. 809 con il titolo La città del lontanissimo futuro. Nel 1982 il successivo romanzo In Viriconium ha vinto un premio indetto dal quotidiano “Guardian”. Dopo due raccolte di racconti, The Ice Monkey e Viriconium Nights, sono usciti Climbers (1989) e il graphic novel The Luck in the Head in collaborazione con Ian Miller. Del 1992 è il nuovo romanzo The Course of the Heart, e del 1997 Signs of Life; nel 2000 è la volta della raccolta di racconti Travel Arrangements. 

Light (2002), tradotto come Luce dell’universo nel supplemento n. 26 di “Urania” del febbraio 2006, ha vinto il premio James Tiptree 2003.

Ad esso è seguito Nova Swing (2006, tradotto con lo stesso titolo nel n. 1559 della nostra collana). Il romanzo trova momenti di autentica grandezza nella descrizione di Saudade, “la città che sorge a diecimila anni luce da casa”, e della colossale perturbazione galattica nota come Fascio Kefahuchi, un frammento della quale è caduto nei pressi del suo abitato. A questo classico della fantascienza moderna fa seguito oggi il terzo capitolo del trittico, Lo spazio deserto (Empty Space, 2012), che condivide alcuni personaggi e situazioni con i primi due: Vic Serotonin, lo spericolato esploratore della singolarità; l’elusiva creatura nota come Shrander e Sandra Shen, che alcuni dicono sia un avatar di Shrander.

Qualche lettore si sarà accorto del nostro continuo interesse nei confronti degli scrittori briannici: da Peter F. Hamilton ad Alastair Reynolds, da Kim Newman a M. John Harrison, ci sembra siano questi i più caratteristici innovatori di un tipo di romanzo avveniristico che è sempre più difficile distinguere dalla sua controparte letteraria o mainstream.

 

G.L.

 

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Michael Moorcock

febbraio 18th, 2014

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Nato a Londra nel 1939, Moorcock ha impresso il segno a tre decenni della fantascienza britannica. Negli anni Sessanta ha diretto la storica rivista “New Worlds” – favorendo il decollo della cosiddetta new wave inglese – e ha pubblicato i suoi primi romanzi di fantascienza, imboccando nuove strade rispetto agli esordi fantastico-avventurosi. Tra i frutti di questo lavoro vi è I.N.R.I. (1966, premio Nebula ’67), romanzo che abbiamo ripubblicato con successo nel n. 102 di Urania collezione, e che, pur facendo uso di un luogo tipicamente fantascientifico come il viaggio nel tempo, lo sfrutta per arrivare a una narrazione mitologica. I racconti fantasy di Moorcock, del resto, avevano gettato le basi per una concezione unitaria del genere: le avventure di Sojan lo spadaccino e, successivamente, i pastiche burroughsiani di Marte, le gesta del principe Corum e quelle di Elric di Melniboné, la sua creatura più famosa, hanno in comune l’idea che tutte le storie possibili siano ambientate su altrettanti piani della realtà: e che miriadi di storie, su miriadi di livelli, formino nell’insieme il Multiverso in cui rientra tutta la produzione moorcockiana. Nella saga fantasy del principe Corum (sei romanzi pubblicati fra il 1971 e il 1974) il concetto viene chiarito in modo definitivo, sicché tutto quanto prende vita in Moorcock è collegato, niente appare casuale.

Negli anni Settanta il nostro crea alcune tra le opere più impegnative: la cosiddetta sequenza del “Campione eterno” – in cui rientrano le avventure di Corum e che vede in I.N.R.I. una sorta di premessa generale, perché i protagonisti della serie saranno tutti uomini del destino, eroi/antieroi dei rispettivi miti – e le Cronache di Jerry Cornelius. Quest’ultimo, personaggio ricorrente in una serie di romanzi ai confini tra science fiction e postmoderno, è una creatura ambigua che si muove in un mondo futuro distorto, apocalittico e grottesco dove i molti problemi dell’umanità sono giunti alla resa dei conti. In The Final Programme, ad esempio (da cui Robert Fuest trasse il film omonimo, ribattezzato in Italia Alpha Omega, il principio della fine), un trio di malfattori si impossessa del programma studiato dal padre di Jerry per combattere la fame nel mondo e lo usa ai propri fini, favorendo la nascita diun nuovo, mostruoso messia.Negli anni Ottanta Moorcock è tornato alla fantasy, suo antico amore, e al romanzo tout-court, con opere mature e personali. In questo periodo ha completato il ciclo di Elric di Melniboné, il principe albino dalla spada fatata e il tragico destino che resta una delle creazioni più originali nel campo della fantasia eroica, ma si è dato anche al fumetto e alla sistemazione della sua vasta produzione in una serie di edizioni accurate e pressoché onnicomprensive. In seguito si è trasferito in America, dove ha portato la sua cultura ed esperienza, senza abbandonare idealmente il vecchio continente: recentemente è stato ospite di Lucca Comics dove gli appassionati italiani hanno potuto festeggiarlo calorosamente.

Tanto affetto e considerazione poggiano però soprattutto sulla memoria, perché a differenza che sui mercati librari più maturi, oggi di Michael Moorcock in Italia si trova soltanto la ristampa del ciclo di Elric, passata dalla Nord a Fanucci, mentre la lodevole iniziativa di rimettere in circolazione il Programma finale (riproposto dallo stesso editore nel 2006) non ha avuto praticamente seguito. Eppure si tratta di un narratore chiave, senza il quale buona parte della fantascienza degli anni Settanta non sarebbe stata possibile. Un narratore che speriamo di poter proporre anche in futuro, su queste pagine e su Urania, per riprendere il discorso che riguarda il versante fantascientifico della sua produzione.

Dopo I.N.R.I. (che era uscito da MEB nei remoti anni Settanta), bisognava ripubblicare almeno due romanzi tradotti su “Galassia” quarant’anni fa: Il corridoio nero e Il veliero dei ghiacci. Lo faremo quest’anno, partendo con il volume di Urania collezione che avete fra le mani e proseguendo in agosto con uno straordinario Millemondi tutto-Moorcock dove appariranno Il veliero dei ghiacci, Il campione eterno e I riti dell’infinito. Dopodiché si dovrebbero affrontare i romanzi inediti di Jerry Cornelius, cioè tutti meno uno, il già ricordato Programma finale: i primi sono A Cure for Cancer (1971), The English Assassin (1972), The Condition of Muzak (1977, vincitore del premio letterario indetto dal “Guardian”), giù giù fino a The Entropy Tango (1981), The Alchemist’s Question (1984) e Firing the Cathedral (2002).

Se questo programma può sembrare ambizoso (e indubbiamente lo è), bisogna aggiungere che servirebbe soltanto a dare un’idea del vulcanico Moorcock. Poi bisognerebbe rileggere i romanzi del lontano futuro che il nostro ha costruito intorno alla figura di un personaggio simile a Jerry Cornelius – anche nel nome – ma forse ancora più ambiguo e “spiazzato” nel tempo: Jherek Carnelian. La serie è composta da tre titoli principali – An Alien Heat, The Hollow Lands e The End of All Songs, rispettivamente del 1972, 1974 e 1976 – più la raccolta di racconti Leggende alla fine del tempo, che ha visto la luce anche in italiano nel n. 7 di “Robot” speciale; infine, dal romanzo del 1977 The Transformation of Miss Mavis Ming. Si tratta di racconti fantastici “dal clima sognante”, come dice John Clute, ambientati in un’epoca lontanissima in cui gli esseri umani hanno poteri semidivini, ma anche, in parte, nel XIX secolo inglese, epoca nella quale Carnelian farà ritorno innamorandosi per la prima volta.

Infine, si potrebbero riesaminare il ciclo bellico di von Bek – solo un titolo apparso da noi, Il mastino della guerra del 1981 – , quello dell’Etere, i romanzi fantasy come Gloriana… In realtà, non è un programma che possiamo sostenere da soli qui a “Urania”. Dovremmo essere fiancheggiati da un editore generalista – ad esempio, i nostri cugini “Oscar” – che ci assicurasse una permanenza in libreria dei titoli migliori. Lo stesso I.N.R.I., con la sua devastante carica polemica ma anche con il suo uso brillante del mito cristiano, meriterebbe di essere conosciuto tra i lettori di narrativa tout-court.(Il romanzo descrive una sorta di palingenesi alla rovescia: il protagonista Karl Glogauer arriva all’epoca di Cristo in una macchina del tempo che sembra una placenta e “nasce” al mondo del passato ma anche del mito. Si tratta, all’apparenza, di un mito capovolto, ma in effetti le tappe della tragica odissea di Glagauer ricalcano fedelmente quelle del Messia perché così dev’essere, fino alla conclusione sulla croce e al grido umanissimo che gli esce dalla gola quando si rende conto che sta per morire al posto di nostro Signore: It’a lie! It’s a lie! Let me down!)Un romanzo iconoclasta? Non soltanto: piuttosto, un romanzo che moltiplica le icone creandone di proprie e facendo riecheggiare l’urlo della vittima – del figlio dell’uomo – attraverso le gallerie del tempo, fino alle estreme conseguenze. Il personaggio di Karl Glogauer tornerà in una seconda avventura, Breakfast in the Ruins – A Novel of Inhumanity del 1972, dando vita così a un proprio mini-ciclo all’interno del più grande mosaico che riguarda il Campione eterno.

Quanto al Corridoio nero che vi accingete a leggere o avete appena letto, uscito nel 1969 precede di poco i devastanti romanzi di Barry Malzberg degli anni Settanta, da Beyond Apollo a The Falling Astronauts, ed è evidente il debito del geniale narratore americano nei confronti dell’inglese Moorcock, che inventa l’ambiente dello “spazio disturbato”, anzi folle: mutuandolo da Ballard o da Dick ma portandola a perfezione. Così, un anno dopo 2001 odissea nello spazio, Moorcock firma la prima odissea tutta psichica della fantascienza moderna; allucinazioni? Realtà multiple? Invasioni mentali? Tutto è possibile in questo romanzo a più livelli che si legge come un implacabile diario di bordo.

Oltre ad averci dato alcuni tra i più originali racconti fantastici del suo tempo, Michael Moorcock ci ha messi di fronte al fatto che non esiste una vera separazione tra realtà e fantasia, tra “oggi” e “domani”, tra mito e storia. Ogni cosa è parte del Multiverso e può apparire davanti ai nostri occhi in forme cangianti. In un artista visionario, tutto ha rilevanza e ci riguarda. Non saranno gli effetti speciali della fantasy o della sf ad attenuare l’impatto sociale della visione, il realismo che sottende le nuove forme del mito. Anzi, come afferma John Clute nell’Encyclopedia of Science Fiction, “i romanzi di Michael Moorcock mescolano fantascienza, fantasy e verismo sociale inglese. Per questa ragione costituiscono un bel passo avanti rispetto alla narrativa popolare e trascendono i limiti del genere, anche se non abbandonano mai la materia e le preoccupazioni delle origini”.

 

Giuseppe Lippi

 

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Robert A. Heinlein e il gioco degli specchi

febbraio 18th, 2014

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a seconda parte dei racconti

introvabili di Heinlein, un

classico di arguzia e inventiva

 

Robert Anson Heinlein è nato a Butler, Missouri, nel 1907 ed è morto nel 1988. Dopo aver dovuto rinunciare alla carriera di ufficiale navale a causa di una malattia, si è dedicato alla fantascienza e scrivendo sulle riviste di John W. Campbell Jr. (“Astounding” e “Unknown”) è divenuto in pochissimo tempo uno dei suoi maestri moderni. Nel periodo maturo della carriera ha firmato alcuni tra i libri per ragazzi più riusciti non solo della science fiction ma di tutta la narrativa avventurosa, come Cittadino della galassia (Citizen of the Galaxy, 1957) e Fanteria dello spazio (Starship Troopers, 1959). Ha affrontato molti temi classici, aggiornandoli: la subdola invasione aliena in Il terrore dalla sesta luna (The Puppet Masters, 1951), il viaggio nel tempo in La porta sull’estate (The Door Into Summer, 1957), il futuro della tecnologia in Waldo (id., 1942); ma ha anche introdottoconcetti nuovi, dal confronto tra scienza e magia in Anonima stregoni (Magic, Inc., 1940) all’astronave generazionale di Universo (Orphans of the Sky o Universe, un testo degli anni Quaranta riveduto nel 1963), il cui tema è stato poi largamente sfruttato; fino al capovolgimento in termini della questione razziale in La fortezza di Farnham (Farnham’s Freehold, 1962), romanzo che abbiamo già presentato in versione integrale su “Urania collezione”.

Molti dei suoi racconti, a cominciare dalla “Linea della vita” (1939), possono essere visti come il tentativo di raccontare il futuro storicamente, in una sequenza logica e ordinata, traendone gli insegnamenti che stanno a cuore a Heinlein e a molti della sua generazione: americani pragmatici, decisi a vincere la Seconda guerra mondiale, a trasformare il mondo in senso tecnocratico e ad amministrarlo come un meccanismo a orologeria. Nei racconti della “Storia futura”– così battezzata dallo stesso Heinlein – vi è la presa di coscienza che l’America è ormai ben altra cosa rispetto ai tempi dei Padri fondatori, ma anche di Abramo Lincoln. Il fatto è che il grande paese si è automatizzato, alterando la propria fisionomia e la volontà che l’accompagna; d’ora in poi la felicità, il diritto all’autorealizzazione, la fede in Dio eccetera non passeranno più per i boschi di Walden o per le riflessioni dei trascendentalisti, ma per le fabbriche, i campi d’aviazione e le catene di montaggio.

Al tempo stesso, Heinlein si dice favorevole al concetto di democrazia intesa come estrema libertà individuale, e addirittura armata. A un certo punto della sua carriera scrive una controstoria della Rivoluzione americana che intitola La luna è una severa maestra (The Moon Is a Harsh Mistress, 1966), romanzo in cui gli ideali libertari si scontrano con quelli della programmazione statale, mettendo in cattiva luce il modello collettivista. E si potrebbe continuare a lungo sulle ambiguità ideologiche (dal punto di vista europeo) del nostro autore, ma è stato già fatto e non è il caso di tornarvi qui. Ci limiteremo a osservare che, come altri romanzieri prima e dopo di lui, Robert Heinlein si è dotato di un’ideologia-progetto che ha i suoi perni nell’efficientismo, nella disciplina militare, nella necessità di difendere la civiltà combattendo i nemici, ma anche nella difesa radicale delle libertà individuali e in seguito sessuali; e che quegli ideali si alternano nei romanzi, oscillanti tra un anarchismo liberatorio precursore del ’68 e un amore per il militarismo e la repressione “necessaria” di tipo neofascista. Ripetiamo, l’ambivalenza è un fenomeno letterario comune e non dovrebbe stupire più di tanto, ma nel caso di Heinlein colpisce perché è un autore che suscita semplici e immediate passioni.

Il grande vecchio ha avuto una lunga e multiforme carriera, tutt’altro che limitata all’editoria di genere: nel 1950 ha scritto la sceneggiatura del pionieristico Uomini sulla luna (Destination Moon) di George Pal, primo esempio di cinematografia a colori sul tema del volo spaziale. Con il romanzo Straniero in terra straniera (Stranger in a Strange Land, 1961) ha tentato un esperimento in anticipo sui tempi: in America il libro suscitò polemiche non solo per l’allegra franchezza con la quale affrontava temi scottanti come la religione e il sesso, ma anche per la sua mole. Notissimo nel campo della fantascienza tecnologica, si è divertito a stupire i lettori con quella paradossale e umoristica, compresi alcuni racconti del fantastico puro che sfuggono alla cronologia della Storia futura e sono usciti su “Unknown” o altre riviste ai confini tra i generi. Quest’ultimo tipo di produzione heinleniana è stato raccolto in due antologie, Waldo + Magic, Inc. del 1950 e The Unpleasant Profession of Jonathan Hoag del 1959. Nel 1999 Tor Books, un grosso editore americano di fantascienza, ha riunito le due vecchie raccolte in un imponente volume unico, The Fantasies of Robert A. Heinlein, che “Urania” ha tradotto in due volumi: Anonima stregoni (n. 1456) e Il mestiere dell’avvoltoio (n. 1474). Oggi ripubblichiamo la raccolta, sempre in due parti, reimpostando la cronologia delle antologie originali, per cui questo secondo volume contiene Il mestiere dell’avvoltoio e altri racconti (in modo da rispecchiare la raccolta USA del 1959), mentre il precedente, pubblicato su Urania n. 1596, ripresentava i due romanzi apparsi insieme per la prima volta nel 1950, Waldo e Anonima stregoni.

Ma anche se non avesse scritto queste deliziose avventure, Heinlein sarebbe ugualmente riconosciuto come uno degli autori più estroversi e sempre capaci di rinnovamento della science fiction classica. Non è un caso che dopo il 1971 abbia conosciuto una nuova stagione creativa, iniziando con il grosso romanzo a sfondo psicosessuale Non temerò alcun male (I Will Fear No Evil) e continuando con una serie di opere controverse che hanno mostrato le molte sfaccettature della sua personalità. Questi romanzi sono: Lazarus Long, l’immortale (Time Enough for Love, 1973: un seguito del precedente Ifigli di Matusalemme), Il numero della bestia (The Number of the Beast, 1981, sempre inserito nel ciclo di Lazarus Long), Operazione domani (Friday, 1982), Il gatto che attraversa i muri (The Cat Who Walks Through Walls, 1985, un’altra aggiunta al ciclo di Long), Oltre il tramonto (To Sail Beyond the Sunset, 1987, il suo ultimo romanzo).

Intanto, un solo romanzo di Heinlein era rimasto a lungo inedito, pur risalendo agli anni 1938-39: si tratta di For Us, the Living – A Comedy of Customs. In America è stato pubblicato finalmente dall’editore Scribner (2004) e in Italia lo ha tradotto “Urania” nel dicembre 2005 (con il titolo A noi vivi, n. 1505). La decisione di pubblicarlo a quasi settant’anni dalla composizione originaria fa già intendere che si tratta di un testo particolare: quello che avrebbe dovuto essere il primo romanzo di Heinlein e che non lo è stato – per una serie di vicissitudini creative ed editoriali – parte subito con notevoli ambizioni e idee molto precise. Idee sulla scienza, la tecnologia, il ruolo dell’America: perché For Us, the Living non è una storia d’azione e neppure un capitolo della celebre Storia futura heinleniana, ma è semplicemente la storia futura degli Stati Uniti, già tutta racchiusa in una visione utopica e polemica di ampio respiro. L’espediente che dà il via al racconto è talmente classico da richiamare alla mente i maestri storici dell’utopia,Samuel Butler (Erewhon), Edward Bellamy (Guardando indietro)e soprattutto William Morris, le cui Notizie da nessun luogo descrivono, come il testo di Heinlein, l’avventura di un Povero Moderno nel mondo del futuro, della post-modernità. Quello che il libro mette in scena è un esame affascinante e impietoso della civiltà di domani: una civiltà che in Heinlein, come in Morris e Bellamy, è studiata tratto per tratto, settore per settore, con la pazienza di un entomologo. Per i lettori abituati al futuro autore di Fanteria dello spazio, Stella doppia o La porta sull’estate è stata una scoperta, una variazione sul tema del progettare mondi alternativi; per tutti è stata un’importante aggiunta alla conoscenza di un autore che viene ancora considerato sinonimo di fantascienza americana, e di cui Philip K. Dick ha scritto: “Anche se abbiamo idee politiche completamente diverse, lo considero il mio padre spirituale,”1.

Mondadori ha anche ripresentato, in “Urania collezione”, la versione integrale della Fortezza di Farnham, precedentemente noto come Storia di Farnham (Farnham’s Freehold, 1962). Il romanzo affronta uno dei temi più scottanti – quello razziale – da un punto di vista così personale che non possiamo nemmeno definirlo “provocatorio” nel senso abituale del termine. Nel leggere il libro dobbiamo riportarci alla prima metà degli anni Sessanta, quando prendeva piede il movimento per i diritti civili e l’espressione “civiltà multietnica” non aveva semplicemente diritto di asilo (con buona pace del melting pot di ottocentesca memoria). Detto ciò, dobbiamo osservare che questo acre romanzo meritavauna ristampa perché aveva avuto un’unica edizione italiana nel 1965 e neppure in volume a sé stante, ma nell’antologia L’ombra del 2000; che era stato dato in una versione talmente incompleta da mancare di circa un terzo del testo originale; e che rappresentava uno dei libri più oscuri e meno citati di un autore ancora popolare tra migliaia di lettori. Nella prima parte della Storia si parla di sopravvivenza e problemi logistici in un microcosmo post-nucleare; nella seconda di una società capovolta e impazzita che rappresenta il particolare inferno di questa visione heinleniana, in cui i neri d’America sono diventati padroni del campo e hanno reintrodotto vecchie pratiche tabù. Non bisogna dimenticare che lo scrittore di fantascienza – anche uno scrittore idiosincratico come Heinlein – non è necessariamente un sociologo o un filosofo che costruisce sistemi coerenti, ma un artista o aspirante tale. In questo senso, oggi può vedere bianco ciò che domani vedrà nero e viceversa. Sulla particolare scacchiera del futuro, Robert A. Heinlein ha spesso giocato a colori invertiti, da esperto moralista. In successivi romanzi, ad esempio quelli degli anni Settanta, avrebbe assunto altre maschere ancora.

 

G.L.

 

1 Nell’introduzione alla raccolta personale Non saremo noi (The Golden Man).

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Henry Kuttner, Lewis Padgett & signora

gennaio 29th, 2014

HotMGallegher balzò in piedi. — Protesto, signor Giudice! Questo giuramento non è valido.

Il giudice era pensieroso. — Vuole spiegarsi, signor Gallegher? Perché questo robot non dovrebbe poter prestare giuramento?

Perché un simile giuramento si adatta solo agli esseri umani.

E perché?

Perché presuppone l’esistenza dell’anima. O, per lo meno, implica una religione personale. Come può giurare un robot?

Il giudice guardò Joe. — Questione interessante, senza dubbio. Ehm… Joe, senti. Tu credi in una divinità personale?

Sì.

Il Pubblico Ministero era raggiante. — Allora possiamo procedere.

Aspetti un minuto — disse Murdoch Mackenzie, alzandosi in piedi. — Posso formulare una domanda, signor Giudice?

Si accomodi.

Mackenzie fissò il robot. — Bene, allora. Puoi dirmi com’è la tua divinità personale?

Certamente — disse Joe. — Assomiglia tutta a me.

 

Henry Kuttner, “Ex machina”

 

Nella fantascienza degli anni Quaranta, Henry Kuttner era uno degli autori più amati soprattutto per la forza dei personaggi, la vivacità dei dialoghi, la facilità con cui riusciva a passare da un genere di racconto all’altro. Se da un lato i lettori apprezzavano un certo tipo di storie kuttneriane brillanti e vagamente ispirate alla logica dell’assurdo, come quelle del super-inventore Gallegher riunite nel volume I robot non hanno la coda, dall’altro ammiravano i racconti scritti in una particolare vena di nostalgia del futuro, ad esempio “La grande vendemmia” in cui i visitatori desiderosi di forti emozioni, venuti dai prossimi secoli per assistere a qualche grande catastrofe, si aggirano tra noi con il loro suggerimento di conoscenze superiori alle nostre e tuttavia inaccessibili. E non bisogna dimenticare i romanzi avventurosi come Furia, con la loro atmosfera decadente e bizantina, né i suoi classici racconti del “mistero sovrannaturale” nella tradizione dei grandi autori del genere: Poe, Hawthorne, Mark Twain, Bierce, Henry James.

Per un certo periodo, tutti i giovani scrittori sembravano ispirarsi a Kuttner, anche talenti tra loro diversissimi come Bradbury e Vance. Anzi, si potrebbe perfino dire che per alcuni anni – da quando John Campbell si ritirò come scrittore a quando si affermò un nuovo tipo di fantascienza di più ampio respiro, rappresentato da Asimov con le sue saghe della Fondazione e dei robot, e da Heinlein con la “Storia del futuro” – Kuttner fu il più importante autore americano.

Dopo il 1950, però, venne progressivamente dimenticato, a mano a mano che la sua firma sulle riviste si diradava. Anche se la produzione di Kuttner era molto vasta, finì che i lettori degli anni Sessanta ne conoscevano soltanto qualche racconto ristampato nelle antologie più diffuse (come Il ritorno del cacciatore), ma sempre col dubbio che non fosse suo, perché si sapeva che parte di quelle storie era stata scritta dalla moglie C.L. Moore. Quanto alla produzione del genere heroic fantasy e horror, essa venne del tutto dimenticata.

Kuttner era nato a Los Angeles nel 1914. Il padre era proprietario di una libreria, ma morì quando Henry aveva cinque anni. Non si hanno molte notizie sulla sua infanzia: si sa che la famiglia si trasferì a San Francisco e che la madre faceva l’affittacamere. Il ragazzo crebbe relativamente isolato, ma pare che fin da giovane dimostrasse una grande propensione per scrivere, e in particolare per scrivere racconti a imitazione di quelli degli autori più noti.

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Allen Steele

gennaio 22nd, 2014

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Torna su “Urania” uno degli

autori più amati della moderna

fantascienza americana.

 

Nato a Nashville, Tennessee, nel 1958, Allen Steele ha eletto a sua patria letteraria un credibile mondo tecnologico in cui astronauti, tecnici e ingegneri di domani fabbricano con il metallo e l’energia, sotto i nostri occhi, immense stazioni spaziali, scali fra la terra e la luna e nuovi modelli di astronavi. E’ il cosiddetto ciclo del Ritorno allo spazio, o anche Near Space (lo Spazio vicino). Negli anni, “Urania” ha pubblicato questa sequenza per esteso, traducendo i romanzi Discesa sulla luna (Lunar Descent, 1991; n. 1270); La fortezza sulla luna (The Tranquillity Alternative, 1996; n. 1298); 2049: Contea di Clarke(Clarke County, Space, 1990; n. 1321); L’ultimo giorno di William Tucker(A King of Infinite Space, 1997;n. 1343) e Orbita Olympus (Orbital Decay, 1989; n. 1386). L’universo sul fondo (Oceanspace, 2000; n. 1411) si stacca solo relativamente dalla sequenza, introducendo una suggestiva ambientazione nello “spazio” degli oceani, ma mantenendo lo spirito dei romanzi precedenti. Un altro testo notevole è stato tradotto da Fanucci: Nel labirinto della notte (Labyrinth of Night, 1992, in “Solaria” n. 12).

Se già L’ultimo giorno di William Tucker esorbitava dai confini dello Spazio vicino, mostrando di volerne allargare gli orizzonti, il successivo ciclo del Coyote – la luna maggiore del pianeta Orso, nel sistema della stella 47 Ursae Majoris – si svolge sui binari della più classica avventura, trasportandoci nell’universo al di là del sistema solare. I romanzi di questa nuova sequenza sono, in ordine cronologico: Coyote: A Novel of Interstellar Exploration (2002), Coyote Rising: A Novel of Interstellar Revolution (2004), Coyote Frontier: A Novel of Interstellar Colonization (2005), Spindrift (2007), il romanzo breve The River Horses (2007), Galaxy Blues (2008), Coyote Horizon (2009) e Coyote Destiny (2010). Il presente Coyote può essere letto in perfetta autonomia, ma di fatto inaugura la saga in questione. Anche quando si avventura sui binari della space opera, Steele rimane uno scrittore credibile e asciutto, competente e a suo modo veristico. Un traguardo non da poco, nell’epoca dei mondi virtuali, delle realtà simulate e delle varie forme del fantasy…

 

Il sito ufficiale di Allen Steele si trova all’indirizzo http://www.allensteele.com/

 

(a cura di G.L.)

 

 

 

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Piero Schiavo Campo

novembre 18th, 2013

Abbiamo incontrato l’autore di L’uomo

a un grado kelvin per chiedergli di

raccontare la genesi del suo romanzo.

 

Piero Schiavo Campo è nato a Palermo nel 1951 ma poi è vissuto a Milano o in Lombardia, a parte una pausa di alcuni anni a Bologna. È docente a contratto di Teoria e tecniche dei nuovi media all’Università di Milano Bicocca e i passato si è occupato di astrofisica. Ha scritto due romanzi brevi di carattere fantastico, uno dei quali è stato pubblicato recentemente su internet (ilmiolibro.kataweb.it.) Con L’uomo a un grado kelvin ha vinto il Premio Urania… senza averci neanche puntato!

 

È così, dunque. Hai scritto il romanzo senza avere in mente il premio Urania?

Inizialmente ho scritto senza velleità di pubblicazione, poi l’ho fatto leggere ad alcuni amici e a mia moglie che mi hanno incoraggiato. Non pensavo però a Urania, perché ritenevo che il suo essere un thriller fantascientifico lo rendesse troppo  “di confine”. È stata un’amica che lavora in campo editoriale a dirmi che le cose non stavano così, e a indurmi a partecipare al premio.

In effetti il tuo è sicuramente un romanzo di fantascienza, ma rispetta del tutto anche i canoni del romanzo di investigazione…

Sono da sempre molto affascinato dal giallo e sono stato un accanito lettore di Agatha Christie. Quello che trovo stimolante, e che mi ha creato molte difficoltà, è la struttura: un libro del brivido deve avere un trama di background, cioè quello che è veramente successo, e una di foreground, che è quella a conoscenza del lettore. Ovviamente devono convergere, ma su quale delle due ci si deve appoggiare per costruire il romanzo? Credo che anche i giallisti di nome oscillino tra queste due soluzioni. Per esempio, Agatha Christie dà l’impressione di basarsi sul background; costruisce perfetti meccanismi a orologeria, ma i suoi personaggi, Poirot e Miss Marple, a me sembrano delle macchiette. In autori come James Ellroy o Raymond Chandler, d’altra parte, la cosa importante sembra essere il foreground, mentre la trama investigativa serve per fornire i colpi di scena al momento giusto.

E tu dove ti collochi tra queste alternative?

Penso a metà strada. L’idea iniziale che ho avuto era quella di un teatro, in cui si alzava il sipario e per prima cosa si vedeva un uomo congelato. Un’immagine forte. I problemi sono venuti quando ho cercato di immaginare come poteva avere avuto origine questa situazione, e mi sono imbarcato in una trama di background molto complessa. Tuttavia il mio non è solo un romanzo a chiave, ma un romanzo di fantascienza a tutti gli effetti. Nell’idea originale l’ambientazione e i temi sociali erano più accentuati: al centro c’era la descrizione di questa Milano divisa in spicchi dominati da etnie differenti, che ha perso la sfida dell’integrazione. Tuttavia, a mano a mano che scrivevo, mi sono reso conto che la parte fantascientifica e quella misteriosa erano più interessanti, e così ho sfrondato le parti relative all’ambientazione, anche perché avevo superato la lunghezza massima consentita dal regolamento. Sono convinto che il romanzo ne abbia guadagnato.

Oggi vanno di moda i personaggi pieni di problemi personali o intenti a filosofeggiare. Tu invece proponi un protagonista che si limita a indagare, senza rivelare troppo di sé…

Sembra che un personaggio per essere considerato interessante debba avere appena perso una figlia o essere un tetraplegico in carrozzella. La mia opinione è che non ci sia bisogno di questo, che chiunque possa essere interessante. Comunque ammetto senza problemi di aver clonato in parte Dick Watson a partire da Archie Goodwin, l’assistente di Nero Wolfe. Penso che sia un’operazione lecita, e che la clonazione in letteratura porti spesso a risultati interessanti. Come Goodwin, anche Watson ha uno sguardo ironico sulla vita ed è fisicamente invincibile. Però, a differenza di lui, non è solo un “braccio” ma anche una “mente”, in grado di avere intuizioni proprie. Spero poi che si capisca che lo prendo volutamente un po’ in giro: per esempio quando fa a gara di erudizione con Long John Silver, e si trova in difficoltà pur avendo frequentato buone scuole. Mi piace pensare di averne fatto non una macchietta, ma una caricatura.

È perché hai scelto di chiamarlo Dick Watson?

Anche questo è un modo per prenderlo in giro, dandogli il cognome di uno dei più celebri personaggi del giallo. Sempre per questo motivo ho deciso che fosse inglese. È un altro modo di fare dell’ironia, anche se la mia intenzione non era di scrivere un giallo ironico, ma con elementi ironici.

In effetti, pur essendo il tuo romanzo ambientato in Italia, i personaggi sono quasi tutti stranieri. Come mai?

Volevo dare all’ambientazione un respiro europeo. Anche se oggi l’idea di Europa è un po’ in crisi, sono stato un europeista convinto, e mi piace immaginare che in futuro l’Europa torni a essere un’idea, e non solo un luogo dove si fanno i conti delle quote latte. Inoltre a parte pochi casi di alta letteratura, l’ambientazione nostrana finisce col generare certi commissari pieni di vezzi italici, cose che mi annoiano un po’.

Tu però hai anche previsto che l’Europa abbia attraversato qualcosa di simile a una rivoluzione…

Spero ovviamente di sbagliarmi. Però ho l’impressione che la crisi che stiamo vivendo sia molto profonda, e che ci vorranno diversi anni prima di superarla. E perciò si potrebbero avere anche sviluppi di questo genere.

Il tuo villain è stato un rivoluzionario, però sembra agire per tornaconto personale.

Per entrare nel mondo della scienza ha dovuto abbandonare la parte precedente della sua vita. E comunque non è certamente un personaggio positivo. Tra i personaggi degli scienziati, quello a cui tengo di più è Sonnenborg, il quale è in parte “clonato” da Erwin Schrödinger, uno scienziato per cui da giovane ho nutrito un’ammirazione particolare. Oggi si sente forse la mancanza di persone come lui, o come Bohr e Einstein, in grado di esprimere una visione generale. Sembrano dominare scienziati più “tecnici”: gente di enorme competenza, intendiamoci, ma che sembra badare più ai dettagli delle equazioni che non alle domande ultime. Ammesso che le domande ultime abbiano delle risposte, e che la specie umana sia in grado di trovarle! Sonnenborg rappresenta la rivincita dei personaggi “alla Einstein”: non è bravo a manipolare le macchine o con la matematica, ma ha intuizioni profonde.

 E i computer quantistici come sono entrati nella trama?

Mi è sembrato ovvio che un centro avanzatissimo nel campo della meccanica quantistica fosse molto avanti anche in quel tipo di tecnologia, già oggi al centro di molte ricerche. Qui mi sono concesso anche di introdurre alcuni elementi non del tutto realistici. La battaglia finale dei due “mostri” difficilmente potrebbe avvenire nella realtà, dato che i condensati di Bose-Einstein vanno confinati in maniera rigidissima, e perdono le loro caratteristiche se interagiscono con qualunque oggetto. Gli stessi computer quantistici sono di molto difficile realizzazione. Non ho idea se nel 2061 esisteranno davvero.

(A cura di Marco Passarello)

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