Antigravità

Joe Haldeman

marzo 3rd, 2011

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Americano, nato nel 1943, Joseph William Haldeman si è diplomato in fisica e astronomia e ha combattuto in Vietnam tra il 1967 e il 1969 come geniere, rimanendo gravemente ferito. Da questa esperienza ha ricavato un’onorificenza (il Purple Heart) e un primo romanzo, uscito nel 1972, che parla di quella guerra (War Year). Il suo primo libro di fantascienza è The Forever War (Guerra eterna, 1974) che vinse i premi Hugo e Nebula. Questo celebre testo – costituito dalla fusione di più racconti apparsi in precedenza sulla rivista “Analog” – rappresenta una trasposizione in chiave fantascientifica della guerra, esperienza umana e letteraria che per Haldeman parve concludersi nel 1975 con un altro testo breve, “You Can Never Go Back”.

Se il più famoso romanzo di fantascienza militare era stato, fino a quei tempi, Starship Troopers (Fanteria dello spazio, 1959) di Robert A. Heinlein, Guerra eterna si presentò fin dall’inizio come un anti-Fanteria, permeato da una visione decisamente più disincantata e dolorosa del conflitto, e interessante proprio come resoconto traslato delle esperienze dell’autore nel Sud-est asiatico. Negli anni seguenti Haldeman si è riconfermato autore di un’interessante serie di romanzi e racconti, perlopiù di genere tecnologico: Ponte mentale (Mindbridge, 1976), Al servizio del TB II (All My Sins Remembered, 1977), l’avventura di Star Trek Il pianeta del giudizio (Planet of Judgement, 1977), Mondo senza fine (World Without End, 1979), Scuola di sopravvivenza (There Is No Darkness, 1983), Fondazione Stileman (Buying Time, 1989), Il paradosso Hemingway (The Hemingway Hoax, 1992) e l’ambizioso 1968.

Per molti anni Haldeman ha giurato che non avrebbe mai scritto un seguito di The Forever War. La decisione di pubblicare un nuovo, ampio romanzo che si ricollegasse idealmente al suo capolavoro è venuta molti anni dopo e non è stata di Haldeman – come egli stesso ha dichiarato – ma degli editori: “A un certo punto, delle varie proposte che avevo presentato è parso che un romanzo intitolato The Forever Peace fosse la più desiderabile e quindi mi sono messo all’opera. Ma non è assolutamente un seguito di Guerra eterna, anche se il libro è imperniato sul problema della violenza e del conflitto. È una riflessione molto personale su una serie di temi che mi stavano a cuore, e che certo si possono riscontrare in altre mie opere.” Dunque, The Forever Peace (1997) era solo un segno premonitore. (“Urania” lo ha pubblicato come Pace eterna nel n. 1336, ma la traduzione fu criticata da buona parte dei lettori e in occasione di questa edizione abbiamo provveduto a farne una nuova).  A Pace eterna seguirà, nel 1999, l’autentica seconda parte di The Forever War, che Haldeman accetterà di scrivere nel giro di poco più di due anni e intitolata Forever Free (Missione eterna, prima edizione in “Urania” n. 1413). Qui non solo i temi di fondo sono quelli del famoso romanzo originale, ma vi compaiono, impensabilmente trasformati, anche i personaggi di The Forever War: in particolare il veterano Mandella.

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Auguri

dicembre 25th, 2010

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A tutti i lettori di Urania,

sinceri auguri di Buon Natale e felice anno nuovo.

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Mario Monicelli parla di “Urania” e di suo fratello Giorgio

dicembre 2nd, 2010

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…Un altro legame di “Urania” con la settima arte è rappresentato dal maestro Mario Monicelli, fratellastro di Giorgio e uno dei grandi registi del Novecento. Le cose stanno così: Arnoldo Mondadori aveva cominciato l’attività editoriale insieme all’amico Tomaso Monicelli e ne aveva sposata la sorella, Andreina. A Tomaso erano nati due figli, Giorgio e Mario, sia pure da diversa madre. Giorgio, futuro fondatore di “Urania”, era un figlio illegittimo dell’attrice Elisa Severi e sarebbe cresciuto in casa dei Mondadori, sotto le cure personali della zia Andreina. Era nato a Tradate il 21 maggio 1910, sarebbe morto a Milano il 20 novembre 1968. Dalla prima moglie, Italia Buzzi (sposata nel 1937), aveva avuto tre figlie: Diana, Fede ed Eva. In seguito aveva abbandonato la famiglia per trasferirsi da Maria Teresa Maglione, detta “Mutti”, che collaborava con lui in campo editoriale e avrebbe tradotto numerosi romanzi sotto pseudonimo. In un’intervista raccolta per “Urania”nel 1997, Mario Monicelli ci ha lasciato il seguente ritratto del fratello:

 giorgio-monicelli.PNG «Giorgio era più grande di me di sette od otto anni: tra noi c’è un altro fratello, Franco, poi vengo io e quindi Mino che ne ha quasi cinque meno di me. Voglio precisare che Giorgio era figlio di un’altra madre, un’attrice teatrale molto nota ai primi del Novecento: mio padre aveva avuto con lei una relazione, ma la signora non aveva mai voluto sposarlo e quando sposò mia madre papà era scapolo. Ricordo che da ragazzo andavo spesso a trovare Giorgio in casa dell’altra signora.«Mio fratello aveva soltanto la licenza liceale, non so se si fosse mai iscritto all’università; trovò presto da guadagnare come traduttore e mio padre, da parte sua, aveva altre gatte da pelare, per cui non fece sforzi particolari per convincerlo a continuare gli studi. Per quanto riguarda me, non ho proseguito nelle mie ambizioni letterarie perché mi sono presto accorto di non avere alcuna possibilità in quel campo, ma m’interessava abbastanza il giornalismo; tutti a casa mia eravamo giornalisti, avevamo preso da mio padre Tomaso che era una firma celebre e si era dedicato alla professione subito dopo la licenza ginnasiale. Anche Giorgio ha cominciato così: è entrato alla Mondadori e piano piano si è fatto strada. Ha curato diverse collane e per la “Medusa” ha scoperto molte belle cose. Prima della guerra ha diretto anche dei settimanali, tra cui, mi pare, uno dedicato alla narrativa poliziesca che si chiamava “Il cerchio verde”. Era un appassionato di astrofisica, leggeva trattati divulgativi e ricordo che nei primi anni Trenta voleva spiegarmi la relatività di Einstein, una cosa che non capiva neanche lui! Credo che “Urania” sia nata da questa passione, Giorgio aveva avuto l’intuizione che dovesse essere una collana popolare. Leggeva l’inglese e quindi aveva a disposizione testi che non arrivavano in Italia. Traduceva anche, ma non parlava né capiva la lingua viva: aveva imparato l’inglese sulla carta e leggeva quei segni come fossero il sanscrito… A casa avevamo perlopiù libri in francese, non in inglese, oppure traduzioni francesi di autori anglosassoni. A quei tempi la lingua letteraria era ancora il francese, sia pure agli ultimi bagliori, e a scuola si studiava come prima lingua straniera. Personalmente ricordo di aver letto molti scrittori russi, da ragazzo (Dostoevskij, Gogol eccetera), ma in traduzione francese! l L’editoria italiana, allora, era balorda. In questo quadro era cominciata l’avventura di Arnoldo Mondadori, che inizialmente era solo un tipografo in un paesino sperduto della bassa mantovana, attaccato al Po. Arnoldo aveva sposato una sorella di nostro padre, suo compaesano, e i primi colpi di genio del futuro editore ebbero come scenario proprio la piccola Ostiglia, subito al di qua delle linee di guerra… Si parla della Grande Guerra, quella del ’15-’18. Mondadori aveva comprato una tipografia e insieme a mio padre, che come ho detto era giornalista, aveva fondato un foglio per i soldati al fronte. E’ lì che è cominciata l’attività mondadoriana: la miserabile tipografia degli esordi ottenne varie commesse dall’esercito e si ingrandì sempre più.«Per cominciare, e prima di collaborarvi stabilmente, Giorgio acchiappò da Mondadori qualche traduzione dal francese; in seguito si trasferì a Milano ed entrò nella casa editrice come correttore di bozze e traduttore. Non so granché di quel mondo: personalmente non ho mai lavorato a Milano né alla Mondadori, ho sempre fatto il cinema. Mio padre, nel frattempo, era diventato direttore amministrativo della Rizzoli, la concorrente di Mondadori, e Angelo Rizzoli s’innamorò del cinema, ebbe voglia di fare il cinema. Fu così che produsse La signora di tutti ( 1934), un film con Isa Miranda per il quale fece chiamare il regista Max Ophüls. A mio padre toccò il ruolo di amministratore generale in quel primo film; da giovane, del resto, aveva diretto una rivista di cinema intitolata “Lux et umbra”.«Intanto, alla Mondadori si cercava di organizzare le cose in modo un po’ più serio, all’americana, diciamo: orari, cartellini eccetera. Mio fratello era considerato un artista, un rompiballe; sia Giorgio che Cesare Zavattini si ribellavano a quelle novità, non volevano orari fissi e perciò venivano continuamente multati. (Zavattini aveva avuto un’esperienza alla Rizzoli che aveva lasciato per passare alla Mondadori. A quell’epoca era a capo dell’API, l’Anonima Periodici Italiani). Facevano strani scherzi, da goliardi, come attraversare la stanza del direttore editoriale a piedi scalzi! Contrariamente a Zavattini, mio fratello non ha mai potuto o voluto fare lo scrittore vero e proprio. Aveva provato a scrivere qualche racconto, ma non ne era rimasto soddisfatto; io stesso ne ho letti un paio, ma erano cose truci piene di gente complessata che si uccideva. Comunque, ebbe sempre un certo rimpianto per questo abbandono. Giorgio passava le sue nottate con un tipo ancora poco considerato nell’ambiente, Giorgio Scerbanenco, giornalista e autore di racconti gialli ambientati a Milano in un’epoca in cui si doveva ambientare tutto in Inghilterra o chissà dove. Frustrati, gran bevitori di vino tutti e due, la sera erano sempre ubriachi, in quegli anni anteguerra. Se Scerbanenco sapesse qual è la sua reputazione postuma, sarebbe molto felice! Durante la guerra mio fratello Giorgio entrò in una formazione partigiana; per un anno o due fu anche questore di una città importante, Varese mi pare. Alla liberazione del Nord tornò in ditta: Arnoldo Mondadori, durante il conflitto, era scappato in Svizzera per paura di requisizioni o sequestri, ma ora l’attività si andava riorganizzando. Voglio ancora dire che mio fratello è stato il primo ad aver tradotto in ltalia Malcolm Lowry, e quando lo scrittore venne in ltalia per conoscere il suo traduttore, i due non sapevano come comunicare! Allora si misero a bere barbera e a sghignazzare, insieme a Scerbanenco, come si può immaginare. Giorgio è morto prima di aver compiuto sessant’anni, di cirrosi epatica. Era malato e sempre scontento, forse perché avrebbe voluto fare il letterato… Pur non avendo mai letto “Urania”, perché la fantascienza non m’interessava affatto, ricordo bene le prime copertine, con quei colori bianco e blu: ma allora, cercavo più volentieri altre riviste letterarie»[1].  

[1] Mario Monicelli, dichiarazioni raccolte a Roma da Lorenzo Codelli e pubblicate in “Urania” n. 1322 (1997).  

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Editoriale di giugno

giugno 1st, 2009

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Editoriale di servizio del nostro curatore Giuseppe Lippi. 

Come saprete, ultimamente il blog di Urania si è trovato sotto attacco. In gergo informatico, ciò significa che uno o più utenti hanno bombardato questo forum libero e aperto a tutti con messaggi provenienti da IP sospette e indirizzi e-mail abusivi. I troll in questione – altro termine di gergo con cui dobbiamo convivere – hanno assunto diverse personalità fittizie, allo scopo di moltiplicare i loro interventi critici o insultanti senza pagarne le conseguenze.

Naturalmente, in questo caso il blogmaster Giovanni “X” De Matteo ha cancellato gli interventi dei troll appena si è reso conto che erano tali. Sottolineo che la colpa non è del loro contenuto, anche se qualche volta un messaggio può essere stato volgare o virulento: la prova è che i post in questione erano regolarmente passati e in un primo momento sono apparsi sul blog. Il problema è che alcune delle firme non corrispondevano a persone reali e indipendenti, ma erano semplicemente “avatar” del troll. Chi legge dall’esterno non può rendersene conto, ma un blogmaster vede gli identificativi di provenienza di ogni computer ed è in grado di tirarne le somme.

Nella mitologia nordica il troll è uno spirito selvaggio, un umanoide odioso o quantomeno dispettoso. E a questo si sono ridotti alcuni sapientoni che volevano così far passare le loro iperctitiche a “Urania”, nella fattispecie alla traduzione del numero di maggio. Del resto, ultimamente si sono scatenate polemiche anche sulla pubblicazione di un autore come L. Ron Hubbard in “Urania collezione” (dove, peraltro, era già uscito un precedente romanzo, Ritorno al domani) e polemichette sui trenta centesimi di aumento del prezzo.

Tirando le somme di tutto questo, vorrei dire tre semplici cose prima di ricavarne le conclusioni.

1) Critiche sulle traduzioni o il contenuto editoriale possono sempre essere fatte, ma è evidente che perdono ogni rilievo e qualsiasi interesse se provengono da personalità fittizie o dallo stesso vigliacco che si nasconde sotto pseudonimi di comodo.

2) In questa redazione non esistono pregiudiziali ideologiche contro nessun autore. Da parte mia, come curatore di “Urania” non ho mai applicato censure e non lo farò in futuro. Nel caso di L. Ron Hubbard, sia ben chiaro che noi pubblichiamo la sua fantascienza classica che non ha nulla a che vedere con i successivi insegnamenti delle discipline dianetiche o scientologiche. Il tenente è un romanzo che nella sua forma definitiva porta la data del 1948 e la cui concezione è ancora antecedente. Accusarci solo per aver fatto circolare il nome di questo autore classico della sf è demenziale e sa di Index librorum prohibitorum, una istituzione che la stessa chiesa cattolica ha abolito nel 1966.

3) La querelle sull’aumento del prezzo (30 centesimi, da euro 3,90 a 4,20) è l’argomento che mi sconforta di più. Pur di prendersela per qualcosa, questi incontentabili – uno dei quali invoca il diritto a “farci lamentare”, sacrosanto quando non è per futili motivi – si attaccano ai 30 cent in più che in tempi di congiuntura farebbero lacrimare. Lo nego! Chi mi dicesse che trenta poveri centesimi fanno una differenza nel suo budget, fosse pure sommato al prezzo delle altre collane da noi pubblicate ogni mese, si sentirebbe rispondere che è un depresso cronico e più specificamente un tormentoso, abitante in qualche buio girone della vita dal quale voglio invitarlo a uscire porgendogli una mano. Come? Comprandogli “Urania” di tasca mia e chiedendogli solo il disturbo di venirlo a ritirare. Già mi pare di sentirlo rispondere: “Ah, ma il biglietto del tram o della metro costa! Un viaggio di andata e ritorno sono ben due euro, scherziamo? Il gioco non vale la candela”. Ed ecco chiuso il cerchio dell’incontentabile. Ripeto: un conto sono trenta centesimi (o dieci, o cinque) sull’aumento del prezzo della benzina, un conto sono quelli che si spendono per un bene come un libro. E’ tutta qui la fondamentale differenza. “Urania” costava fino a un mese fa meno di quattro viaggi in autobus, oggi costa quattro viaggi e una spanna. Vi domando: c’è un solo altro libro in Italia che costi meno, o altrettanto poco? La risposta è no: siamo la collana più economica del mondo sviluppato, o quello che sembrava tale. E per essere un genere superfluo, non di prima necessità, lottiamo per mantenere un prezzo che invece è quasi da bene primario. Un prezzo politico, se volete, che solo un grande editore può permettersi di offrirvi. Se c’è qualcuno che protesta lo stesso, gli rispondo con Totò: “Ma mi facci il piacere!”.

Da tutto questo, Sergio Altieri ed io abbiamo tratto una conclusione sconfortante. Che c’è gente alla quale piace sempre e comunque attaccare, blaterare, distruggere. Non è una novità, per “Urania”, la quale non è pubblicata da una casa editrice minuscola (vivaddio, sarebbe costata il triplo), non è recensita dalle riviste snob e per sua fortuna non rientra nel Gotha delle letture obbligatorie, ma vuole accontentare il suo pubblico di appassionati e collezionisti, lo stesso che legge fantascienza da sempre e resta lo zoccolo duro del mercato. A questo pubblico si sovrappone, di tanto in tanto, una categoria di biliosi che pretendono di avere la ricetta del futuro tra le mani. Non ce l’hanno: sono solo dei disturbatori, deboli-di-pensiero che a volte si nascondono persino dietro nomi falsi. Lo scopo è evidente: insinuare il dubbio, l’acredine, mostrarsi più bravi di chi fa questo lavoro per mestiere.

Stavolta ci siamo limitati a smascherarli, ma la prossima dimostreremo come di professorini non ci sia alcun bisogno. Semmai, di professionisti.

Giuseppe Lippi

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L’Editoriale di Giuseppe Lippi: Primavera Illustrata

marzo 5th, 2009

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Torna l’appuntamento con l’editoriale del nostro curatore. Siete pronti per scoprire le prossime novità di “Urania”?

So che non sembra affatto primavera, ma fra pochi giorni lo sarà e ai lettori di “Urania” avrà fatto piacere ritrovare, con le piogge marzoline e i timidi tepori (?) di questo mese, il primo numero illustrato della loro collana dopo parecchi anni. La sorpresa maggiore, però, è che i disegni di Giuseppe Festino non rappresentano un’una tantum ideata per sottolineare il piglio visivo dei due brevi romanzi di Dario Tonani, ma saranno una novità costante, un’aggiunta che si ripeterà di mese in mese. L’idea è nata da un incontro tra il famoso illustratore di “Robot” (ma anche di “Urania”) e il nostro editor Sergio Altieri, che è un appassionato di Festino fin dagli anni Settanta. Quando il progetto è decollato, non ho potuto fare a meno di provare una fitta di nostalgia: per me, che alla redazione di “Robot” ho lavorato per più di due anni, è stato come tornare ai tempi eroici delle riviste. Del resto, Giuseppe non ha illustrato solo periodici ma anche libri: la collana tedesca dell’editore Heyne, per esempio, e diversi numeri di “Urania” e “Classici” all’epoca dell’operazione agli occhi di Karel Thole. Si tratta quindi del ritorno di un amico, e un appuntamento che si ripeterà nei prossimi numeri per arricchire lo spazio della vostra immaginazione. 

Qui sul blog i disegni verranno regolarmente anticipati per il vostro piacere di appassionati, ma dobbiamo fare due avvertenze. La prima è che non potremo pubblicarli ad alta risoluzione perché le regole del web non lo permettono; la seconda è che i disegni appariranno così come sono stati eseguiti dall’artista, senza il lettering (cioè le scritte) che nella versione a stampa riempiranno gli spazi vuoti. Insomma, saranno una “versione originale” su cui potrete cliccare ogni volta che vi piacerà per vederla ingrandita. La risoluzione aumenterà, anche se non al punto da fare concorrenza ai bellissimi risultati della stampa. Insomma, per godere dell’effetto completo non vi resterà che comprare “Urania”…

Al di là della sorpresa illustrata, in aprile arriveranno altre novità con il nuovo mensile “Epix”, dedicato al fantastico. Horror, fantasy, autori italiani e contaminazioni: un carosello che sarà aperto dal più trasgressivo e irregolare degli autori di “Urania”, Valerio Evangelisti, che abbiamo tenuto a battesimo quindici anni fa con il primo romanzo di Nicholas Eymerich. Sembra una storia lontana, invece è solo ieri: e Valerio tornerà sulla nostra corazzata con un’antologia di racconti, il primo dei quali assolutamente inedito. Più avanti seguiranno anche testi classici, da Robert E. Howard ai discepoli di H.P. Lovecraft, mentre stiamo attualmente leggendo una meritevole antologia di F. Paul Wilson. Da subito, invece, avrete i romanzi della serie Doom (ispirata all’omonimo gioco) e varie novità fantasy.

Ma di questo diremo meglio più avanti. Per tornare alla fantascienza, abbiamo in lettura nuovi romanzi di Michael Swanwick, Charles Stross, Peter F. Hamilton e Stephen Baxter. I supplementi di “Urania”, cancellati dalla programmazione normale e sostituiti da “Epix”, torneranno ad apparire eccezionalmente in dicembre con un numero unico che sarà dedicato, con tutta probabilità, a un lungo romanzo italiano. Per ora non riveliamo di più…

Nell’augurare a tutti un mese di buone letture con “Urania” e la Collezione, mando a voi tutti un saluto dallo spazio dove sono parcheggiato in orbita per scampare alla pioggia.

Ad majora!

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I funerali di Lino Aldani

febbraio 3rd, 2009

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Nel racconto di Giuseppe Lippi.

Lunedì 2 febbraio in tutta la Lombardia c’è neve; non ce la sentiamo di partire in macchina e alle 12,05 prendiamo un treno in Centrale. Alle 12,33 siamo a Pavia, dove ci raccoglie il genero di Lino, dottor Angelo Corsico. Essendo medico, ci fornisce alcune informazioni sulla patologia: Lino Aldani è stato bene fino all’estate 2008, ma in settembre ha cominciato ad accusare disturbi alla prostata. Fattosi esaminare, ne è uscito con una diagnosi tranquillizzante per quanto riguarda il problema specifico, ma con la scoperta (casuale, a quanto sembra) di un piccolo tumore al polmone. Nonostante le dimensioni ridotte, si tratta di una forma particolarmente aggressiva: adeno-carcinoma. Non è uno dei tumori che attaccano preferibilmente i fumatori, ma di quelli che possono colpire chiunque; il fatto paradossale è che Lino Aldani non aveva alcun disturbo respiratorio.

Arrivati all’Istituto per le Malattie del lavoro, saliamo al terzo piano; qui ha sede una fondazione che assiste i malati terminali. Ancora fino a Natale, raccontano il dottor Corsico e sua moglie Elettra, figlia unica di Aldani, lo scrittore era riuscito a partecipare alla vita di famiglia, sia pure sempre più inappetente e con difficoltà motorie. Per spostarsi da una stanza all’altra usava la poltroncina a rotelle dello studio: questo perché il tumore aveva cominciato a diffondersi nelle ossa. La situazione è precipitata dopo Capodanno e l’8 gennaio, in seguito allo spezzarsi del femore, è stato necessario trasportarlo all’ospedale. Qui Aldani è rimasto poco più di tre settimane: prima presente a se stesso e impaziente di essere dimesso (“Sto morendo”, diceva ad Elettra, “fatemi tornare a casa mia”), poi gradualmente più stanco e, negli ultimi giorni, meno lucido. Non c’è stato niente da fare e si è spento la notte tra venerdì 30 e sabato 31 gennaio. Avrebbe compiuto 83 anni il 29 marzo.

Nella camera ardente arriviamo poco prima della chiusura della bara. In qualche minuto è tutto finito e il convoglio delle macchine prende la strada di San Cipriano Po, il paese di Aldani a una ventina di chilometri.

Qui, alle 14,00, si svolge una breve cerimonia civile nella sala comunale, alla presenza del sindaco Pietro Faravelli, dei parenti stretti e alcuni amici: gli editori Ugo Malauti e Armando Corridore, vari affezionati lettori. Diamo un breve addio allo scrittore di “Buonanotte Sofia”, “37° centigradi”, Quando le radici ed Eclissi 2000. Ugo Malaguti parla della sua fantascienza realistica e impegnata, io stesso ricordo l’apertura dei tempi in cui Aldani cominciò a scrivere, il breve periodo del boom negli anni Sessanta. E’ strano parlare di fantascienza davanti a una cara persona morta: penso che sia la prima volta che mi capita e, spero, l’ultima. Molti hanno le lacrime agli occhi; Mirella, moglie di Aldani, è stretta tra le cognate. La fantascienza sarebbe davvero fuori posto, se non fosse anche ciò che ha rappresentato l’arte di Aldani. E per un uomo che scrive, vita e creazione sono una cosa sola.

Del resto, molti dimenticano che “fantascienza” è un’etichetta di comodo, una gabola quasi, ma è il fantastico che sta al cuore dell’operazione e Lino Aldani è stato un grande del fantastico, definizione che non credo respingerebbe. Fantasia lucida e avvertita, si è detto, per capire la realtà invece che sfuggirla. E che da oggi vivrà nel ricordo e nei suoi libri.

La mattina di martedì 3 febbraio, Aldani è stato cremato e l’urna inumata nel cimitero di San Cipriano Po.

G.L.

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Intervista a Lino Aldani

febbraio 2nd, 2009

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 Riprendiamo questa lunga intervista ad Aldani curata da Giuseppe Lippi.

Lino Aldani è ritenuto, a livello internazionale, il maggiore esponente della fantascienza italiana ed è senz’altro il più tradotto. Nell’antologia The Science Fiction Century (1997), il volume a cura di David G. Hartwell che ripropone i capolavori della sf del Novecento, i soli autori italiani inclusi sono Lino Aldani e Dino Buzzati. Il suo successo dipende da tre motivi: la forza dello stile, con cui descrive ambienti straordinari e personaggi reali, estremamente credibili (non di rado si tratta di mature proiezioni dello stesso Aldani); la costante qualità dell’invenzione in un genere che spesso si accontenta di scimmiottare le trovate altrui, per cui si può ben dire che Aldani sa uno dei pochi maestri italiani del fantastico; infine, la tensione ideale, l’intensità che c’è in ognuno dei suoi racconti, sia che descrivano una grottesca Italia del futuro, sia che parlino della necessità di rivoluzionare l’uomo. Autore, in cinquant’anni di carriera, di innumerevoli racconti brevi che spaziano dalla commedia al dramma, dall’avventura psicologica alla profezia sul nostro domani, Aldani ha scritto in tutto sei romanzi fantastici, mentre almeno due di genere realistico non sono mai stati pubblicati. Per onorare i cinque decenni di una carriera così importante, la Perseo Libri di Bologna ha racchiuso l’intero corpus della narrativa di Aldani – racconti e romanzi – in cinque volumi: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro korik, cui si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium. “Urania” ha voluto festeggiare a sua volta il grande scrittore andando  a intervistarlo nella sua casa di San Cipriano Po, dove ha ritrovato un geniale narratore, un attivissimo direttore di rivista – la sua “Futuro Europa”, attualmente pubblicata dalla Perseo, è la reincarnazione della storica “Futuro” degli anni Sessanta – e un uomo davvero impeccabile, lombardo di sangue ma romano di spirito oltre che d’adozione… Come si vedrà dalle seguenti battute. 

Domanda: Aldani, tu sei nato nel 1926 e hai combattuto molte battaglie del presente, immaginando nelle tue opere quelle del futuro.Come ti senti nello scenario degli anni Duemila, adesso che ci siamo?

Risposta: Abbiamo tutti aspettato quella data, ma nel complesso provo una gran delusione. Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente; tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate.

D.: Ma l’emozione di vivere questo XXI° secolo?

R.: L’emozione? Per dirla alla Gigi Proietti, meno male che ci sono arrivato. 2002, 2003, 2004, un anno vale l’altro… Qui non si muove niente, è questo il grave.

D.: Secondo te, c’è stata una contrazione del senso del futuro?

R.: Sì che c’è stata. Quale senso del futuro ci è rimasto? Lo ha scritto anche Fabio Calabrese ad Antonio Scacco, parlando di prospettive…

D.: E i motivi?

R.: Non lo so con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo.

D.: Questa situazione è molto diversa dal passato…

R.: Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un ottimismo della volontà che ci ha fatto sperare, ma col passare degli anni ha avuto la meglio il pessimismo della ragione. Guarda quello che scrive Ernst Schumacher, il sociologo tedesco di Piccolo è  bello, un libro del 1973: a meno di non cambiare radicalmente il nostro atteggiamento in direzione bioetica, il mondo andrà incontro a un’immane distruzione di risorse, capacità e forme di vita. Non vedere questo equivale ad essere fregati. Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro.

D.: E’ un enorme problema politico. Un tempo c’erano le attese del socialismo, a mitigare il panorama: tu sei stato un militante e ancora nel 1980, in un’intervista concessa a Vittorio Curtoni sulle pagine della rivista “Aliens”, parlavi di rivoluzione….

R.: Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. E’ già un pensiero rivoluzionario, perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose.

D.: Sopportare va bene, ma reagire?

R.: Come si fa? Non è più possibile. Il perché è già contenuto in nuce nelle analisi di André Gorz, ad esempio nel Socialismo difficile del 1968. Noi abbiamo vissuto l’epoca di Stalin, che è stato l’uomo che ha tentato di costruire il socialismo in Russia dopo Lenin…

D.: L’obbiettivo finale di un regime socialista dovrebbe essere l’abbattimento dello stato, naturalmente dopo un periodo transitorio. In passato non hai mancato di sottolinearlo: era questa la tua visione dell’utopia?

R.: Sì, e credo che nonostante tutto si potrebbe ancora arrivare al superamento dello stato…. In effetti è l’unica utopia ancora viva, l’unica che possa stare in piedi. [Sorride, poi]: Peccato che m’hai preso in una giornata in cui non so parlare. Ti rispondo a frasi mozze.

D.: Forse è solo che non hai voglia di teorizzare. Veniamo a cose più concrete, per esempio la tua famiglia e l’ambiente da cui provieni.

R.: Mio padre era uno chef d’albergo originario di San Zenone, mia madre una mondina di San Cipriano Po. Personalmente non ho imparato l’arte culinaria, so fare solo qualche piatto. [La moglie, Mirella, interviene: “Lumache e quaglie le fa benissimo!”]

D.: Quando sei nato, i tuoi genitori vivevano a Roma?

R.: Sì, mio padre ci si era trasferito per lavorare. Per far partorire mia madre erano tornati a San Cipriano, ma avevo quaranta giorni quando siamo andati definitivamente a Roma. [Mirella interviene per aggiungere aneddoti sulla nascita di Lino. Lui, un po’ irritato, la interrompe]: Ma te stai un po’ zitta un momento? Sì, sono spesso irritato perché da infante mi legavano le braccia nelle fasce. Però, in fondo sono una buona pasta.

D.: Mi puoi raccontare qualcos’altro, della tua infanzia?

R.: Sto scrivendo un racconto sull’argomento.  Mi ricordo, per esempio, che mia madre mi lasciava solo in casa, dicendo che mi avrebbe tenuto compagnia il bambin Gesù. Però io stavo solo su un seggiolone e mi rodevo… Altro che “la mamma fa presto”! Avevo tre anni e magari, per calmarmi, lei prometteva di portarmi un grammofonino che regolarmente non arrivava. A tre anni già scrivevo e scarabocchiavo, volevo risme di carta. “Tu prega Gesù”, diceva la mamma: ma il mio sogno era possedere una risma di carta! Gesù l’ho cassato, l’ho cancellato da allora. Sono ateo completo, sottolineato. Però combatto sempre con i libri di religione, perché sono alla ricerca di una conferma alle mie conclusioni. Sono una personalità profondamente religiosa perché so vedere, nelle cose della vita, un lato che non è affatto terra-terra.

D.: I tuoi studi, la tua professione?

R.: Ho studiato matematica e filosofia, materie che poi ho insegnato nelle scuole serali. T’a ricordi, Mire’…? Però la scuola l’ho odiata, appena ho potuto sono andato via. Baby pensionato dell’insegnamento, eccomi qua.

D.: Come è cominciata la tua carriera letteraria?

R.: Nell’immediato dopoguerra ho scritto un romanzo senza titolo e diversi racconti di ambientazione partigiana che avrei potuto pubblicare con Lucio Lombardo Radice. Lui dirigeva la rivista di un circolo culturale, “Incontri”, che mi rifiutò un racconto: l’avrebbero accettato solo a patto di cambiare il finale. Lo stesso dicasi per il romanzo, Lombardo Radice pensava che ci fossero problemi ideologici, cose che non andavano. La tesi del libro era che non si può entrare in un’epoca di pace portandosi dietro i vecchi rancori della guerra partigiana. Dopo questi inizi, c’è stato un romanzo esistenziale, Le anatre di sughero. Parlava di un certo Coriolano Mauser, una mia proiezione, e della sua esistenza. Questo signore viveva situazioni tipiche dell’esistenzialismo: si trovava in un cimitero, assisteva alle imprese di un gruppo di vagabondi che scoperchiavano le bare dei morti. Ad un certo punto, andava da un pescatore sul fiume che utilizzava le anatre di sughero: bestiole finte che suggeriscono l’idea di una realtà illusoria.

D.: Sono esperienze autobiografiche anche per quanto riguarda il periodo di guerra?

R.: Durante la Seconda guerra mondiale sono tornato a San Cipriano Po, il paese dove sono nato, per un periodo di quattordici mesi. Ero renitente alla leva e avevo deciso ad andare in collina fra i partigiani, ma nessuno volle accompagnarmici. E’ un paese di cacca, il mio, di confine, di gente che si schisciava (scansava, sottraeva).

D.: Dopo quegli esordi neorealisti, come ti è nata la passione per il fantastico?

R.: Per me è un fatto naturale, di carattere. Sono nato ignorante e sono rimasto ignorante a lungo, son venuto fuori dopo: di conseguenza, all’epoca dei primi racconti non è che avessi tanto riflettuto su problemi di genere o altro. Del resto, da ragazzi, chi aveva il tempo di leggere? I miei primi racconti fantastici li ho scritti dopo aver fatto il militare e letto Sartre, il mio grande amore. Si era verso la metà degli anni Cinquanta, quando mi è venuta l’idea de “L’inseguito”. Più o meno a quell’epoca è uscita “Urania” rivista e mi è dispiaciuto non poco quando ha chiuso dopo quattordici numeri. In seguito ho letto “Planète”, che conteneva altre suggestioni ma sulla stessa onda: il mistero del santo Graal, eccetera…

D.: Come hai cominciato a scrivere fantascienza?

R.: E’ stato un mio alunno, all’epoca in cui insegnavo. Vedendo che avevo con me dei numeri di “Urania” mi ha fatto conoscere un pazzo, certo Polimeni, che si interessava di dischi volanti. In seguito l’alunno mi portò un numero di “Oltre il cielo”, la rivista pubblicata negli anni Cinquanta-Sessanta. Ho cominciato a collaborare, a scrivere racconti per loro e mi sono familiarizzato con la redazione: l’ingegner Armando Silvestri, il direttore, e il suo braccio destro Cesare Falessi, alto quasi due metri, una specie di marziano ma con un buon acume editoriale. E’ stato lui a consigliarmi di passare dal genere satirico, con cui avevo esordito, al racconto “serio” di sf. Per i miei gusti, comunque, in “Oltre il cielo” c’erano troppa avventura e troppa astronautica.

D.: Ed è stato a quell’epoca che hai conosciuto tua moglie.

R.: Ho conosciuto Mirella nel 1955, lavorava nella stessa scuola (dove insegnava matematica) e in occasione degli esami ci siamo frequentati un po’ di più. Il 25 luglio 1957 ci siamo sposati e ricordo che il giorno prima abbiamo fatto un doppio di tennis. Abbiamo vinto noi e gli altri ci hanno chiesto la rivincita, ma dovevamo sposarci ventiquattr’ore dopo e così abbiamo rinunciato. Elettra, nostra figlia, è nata nel 1964.

D.: Un anno prima avevi fondato una tua rivista di fantascienza…

R.: Sì, “Futuro” è nata nel 1963. Ne ero molto soddisfatto, ma si trattava di una visione utopica perché pensavo che se uno publica cose buone, il successo è automaticamente assicurato. Invece mi resi conto che per aver successo te devi appecorona’. Intorno alla rivista lavoravamo in parecchi: a parte me c’erano Massimo Lo Jacono, Giulio Raiola, Sandro Sandrelli e Inìsero Cremaschi; con Lo Jacono non mi ci prendevo, lui era per una rivista commerciale, io per la qualità. Poi arrivò Cremaschi e allora… che vuoi fare più? Lui aveva il pallino della moglie, Gilda Musa, ce la infilava dappertutto.

D.: Quella di “Futuro” è stata un’avventura breve, ai tempi. Anche se poi l’avresti rifondata con Ugo Malaguti e oggi la pubblichi con il titolo “Futuro Europa”.

R.: Sì, la prima “Futuro” è morta nel 1964, dopo il fallimento di un distributore e il subentrare del secondo. Otto numeri usciti e non vedemmo neanche un soldo, proprio perché il distributore fallì. Chiuso quel ciclo, le prospettive per la mia narrativa mi sembravano zero. Non scrivevo più niente. Nel 1975 ho lasciato la scuola, mettendomi in aspettativa; quindi sono andato in pensione. Intanto, già nel 1968 eravamo andati via da Roma e ci siamo trasferiti a San Cipriano Po, il paese dove sono nato: ho  insegnato ancora qualche anno in zona e Mirella ha fatto lo stesso. Poi ci siamo ritirati.

D.: Come è stato l’impatto con queste terre?

R.: Appena arrivato da Roma in provincia di Pavia, mi è sembrato di sbarcare su un altro pianeta. Dove fra l’altro comandavano i fascisti. Per due anni non abbiamo avuto neanche una casa, mentre costruivamo questa: poi mi hanno eletto sindaco e ho rivoltato le carte in tavola, sul piano politico. Ho fatto ribattezzare via Gramsci la strada in cui viviamo e ho ripreso a scrivere.

D.: Hai messo subito mano al tuo primo romanzo, Quando le radici?

R.: Guarda, i primi capitoli di Quando le radici li avevo già scritti a Roma nel 1966: ma allora ero troppo occupato a vivere. Alla fine, quando il libro è uscito nello Science Fiction Book Club della Tribuna (1977), rispecchiava abbastanza fedelmente quello che avevo fatto nella realtà, il trasferimento da Roma al Po. In questo paese, San Cipriano, sono successe proprio le cose di cui parlo nel romanzo.

D.: E’ una storia tormentata ma realistica, una  profetica visione dell’italia del futuro. Come venne accolta, all’epoca?

R.: Credo che fosse accusata di pavesismo, di eccesso di realismo provinciale, cose del genere. Anche per questo, quando l’editore De Vecchi mi commissionò un secondo romanzo decisi di cambiare registro e il risultato fu Eclissi 2000 del 1979.

D.: Come avevi conosciuto De Vecchi?

R.: Tramite Mario Macario, il figlio di Erminio. Eravamo amici, lui aveva un contatto con De Vecchi e mi chiesero di scrivere un altro libro. Eclissi sembra la storia di un viaggio interstellare, tema popolare ma secondo me insostenibile: tuttavia, negli ultimi anni mi sono convertito all’idea che una cosa del genere puoi scriverla come puro divertissement. Lo stesso vale per i viaggi nel tempo. In un certo senso, però, anche Eclissi 2000 è una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false: è questo il significato dell’astronave che non vola.

D.: Poi, nel 1980, è stata la volta di Nel segno della luna bianca scritto con Daniela Piegai e pubblicato dalla Nord.

R.: Il nostro titolo era Febbre di luna ed è stato restaurato per la riedizione fatta dalla Perseo Libri. L’idea ci è nata per sfatare le tante cavolate sulla Tradizione con la T maiuscola, la destra eccetera. Volevamo fare un fantasy che fosse dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da Gianfranco de Turris e altri. Costoro lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali

D.: Come era suddiviso il lavoro tra te e la Piegai?

R.: Il romanzo è prevalentemente mio perché la trama è mia dalla “A” alla “Z”, ma avevo bisogno di una collaboratrice come la Piegai che è esperta in sortilegi, leggende eccetera. Mi ha tolto le castagne dal fuoco in varie occasioni, ma il romanzo lo sento mio.

D.: Così arriviamo alla Croce di ghiaccio del 1989, il romanzo pubblicato dalla Perseo.

R.: Sì, e la sua genesi può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete. Costui aveva una gran paura  di finire ammazzato da un momento all’altro per mano degli zingari che avrebbe dovuto evangelizzare. E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, è il prete che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. Ma il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro: non sono d’accordo con i critici cattolici come Antonio Scacco, secondo i quali sarebbe un romanzo scritto per fare andare d’accordo scienza e religione.

D.: Nella tua carriera i racconti hanno sempre avuto una posizione predominante. Li preferisci ai romanzi?

R.: Sì, indubbiamente. La fantascienza è un genere che si regge sulla bontà dei suoi racconti o al massimo delle novelette, cioè i racconti lunghi. A chi fosse preoccupato della sorte dei personaggi, posso assicurare che in un racconto è possibile delinearli con la stessa efficacia. Se basta una schioppettata per abbattere un volatile, perché sprecarne tre o quattro? Personalmente, ritengo di aver scritto vari romanzi che hanno la lunghezza di racconti: “La costola di Eva”, “Trentasette centigradi”, eccetera.

D.: Quale consiglio daresti a un giovane aspirante scrittore?

R.: Tu vuoi farmi dire qualche banalità! Non si possono dare consigli, semmai augurare a tutti di  avere una gran fortuna, imboccare la strada giusta. In realtà nessuno può dire come si fa, men che meno io. Bisogna avere serietà innanzi tutto.

D.: Cosa ti piace leggere di fantascienza?

R.: Da anni non la seguo più, a parte quello che arriva alla redazione di “Futuro Europa” e che leggo per dovere.

D.: E quali criteri segui, in questo tuo “dovere”?

R.: Colmo con uno sforzo il gap della mia ignoranza.

D.: Secondo te, ha ancora senso scrivere science fiction? 

R.: Sì, ma solo a patto di mettere in risalto la “pars destruens”, non la “pars construens”. Altrimenti ci limiteremmo a scriverla solo perché siamo nel campo, la conosciamo e compagnia bella.

(Intervista raccolta da Giuseppe Lippi con il contributo di Mirella Aldani, Ugo Malaguti e Sebastiana Vilia a San Cipriano Po, PV, il 18 settembre 2004. Pubblicata su “Urania” n. 1494 nel gennaio 2005.)

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Buon anno con l’utopia

dicembre 29th, 2008

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Ci congediamo dai nostri lettori con la sorpresa di un editoriale di fine anno, firmato dal nostro Curatore Giuseppe Lippi. 

Per le feste, quel che ci vuole è una massiccia dose di auguri: quest’anno, poi, in maniera particolare. Auguri a tutti i lettori per un anno ricco di soddisfazioni; a “Urania” perché si mantenga all’altezza delle loro aspettative; a quelli che lottano contro le insidie della crisi o delle crisi, e che sono il 95% della popolazione sana; a chi soffre e a chi guadagna meno. Con il loro prezzo bloccato e, per così dire, alla portata di tutte le tasche, le nostre collane cercano di dare un piccolo contributo in tema di potere d’acquisto, ma è soprattutto proponendo buone letture che tentano di realizzare il loro compito, che consiste ancora una volta nel darvi ottima science fiction e non solo un po’ di relax. Sono tempi duri, è vero, e le cose non vanno come dovrebbero quasi da nessuna parte. Forse siamo a una svolta epocale su questo pianeta abitato da cinque miliardi di bocche, meno di un terzo delle quali ricevono una razione giornaliera adeguata. Forse siamo arrivati al redde rationem di un’epoca, di uno stile di vita, del secolo della diseguaglianza. Cose da fantascienza ci attendono dietro l’angolo: un salto nel buio per l’ordine mondiale che conosciamo oppure una svolta definitiva.

I trent’anni che ci stanno alle spalle sono stati tra i più subdoli della storia moderna: e in cambio dell’illusoria “pace” che regnava nei paesi occidentali (i quali, tuttavia, continuavano a pagare un assurdo tributo di vite umane nei vari conflitti locali, esportati in nome di una grandeur degna di ben altra causa), il disavanzo tra i ceti sociali aumentava, la produttività entrava in crisi per la concorrenza dei più dinamici paesi dell’Asia, la sicurezza sociale dei ceti medio-bassi, e poi anche medio-alti, colava a picco per colpa del liberismo senza regole, della speculazione finanziaria e della distruzione delle garanzie nel mondo del lavoro. Lascia governare la signora Thatcher, lascia fare a Reagan e Bush, mantieni saldi i legami tra politica e corruzione, politica e mafia, e avrai come prodotto il declino del mondo occidentale che infatti si è verificato. Società senza più fiducia nei loro rappresentanti, interi paesi privati dell’orgoglio del lavoro, sicurezze da tempo acquisite gettate alle ortiche. E guerre, conflitti violentissimi dappertutto. La fantascienza non aveva previsto il crollo dell’Unione Sovietica a così breve termine (1991), ma neanche questo è servito ad allontanare lo spauracchio delle tensioni globali. L’est europeo ha dovuto affrontare, nei successivi diciassette anni, una crisi pesantissima che si è in parte sfogata nell’esodo verso i paesi dell’ovest; in alcuni luoghi del cosiddetto terzo mondo è fiorito il terrorismo con un vigore senza precedenti, quasi un riflesso del terrorismo economico che prendeva piede in quelli più ricchi.

Il lettore di fantascienza, e non lui soltanto, si è visto proiettare nel XXI secolo da un’apocalisse (l’attentato alle torri gemelle di New York nel 2001) e ha continuato a marciare allegramente sullo scivolo della disgregazione globale. Per fortuna, la storia non è finita e vi sarà il modo di ripensare il mondo, immaginarlo su nuove basi. E’ proprio quando la crisi si inasprisce, le difficoltà reali si sommano e a molti sembra di toccare il fondo, che torna il tempo dell’utopia. Noi che siamo votati a questo mestiere lo sappiamo. Le vecchie certezze scompaiono ma altri valori prenderanno il loro posto; se di una cosa possiamo essere contenti, è che in tempi così difficili non c’è più posto per il cinismo né per sordidi giochi di potere.

E’ una legge economica: se la barca rischia di affondare devi trovare il coraggio di cambiare rotta, non di rattopparla con pezze sudicie. L’utopia, dunque: “Urania”augura a tutti di cominciare a respirarne l’aria fin dal 2009, ma ricorda che per sperimentarla bisogna rimboccarsi le maniche, rinunciare ai vecchi schemi mentali e darsi da fare in prima persona. Se è finito il tempo degli utopisti in poltrona, ben venga quello di chi dovrà ricostruire un mondo.

E vediamo di dare uno sguardo al futuro, all’annata 2009 che in molti paventano ma che sarà invece un anno di sfide, iniziando dal piccolo campo che ci riguarda. Diversi lettori ci hanno chiesto qualche anticipazione sui nostri programmi e ne approfittiamo per accontentarli. Di quali utopie letterarie si tratterà? Innanzitutto del confronto con un altro tipo di società, un altro ordine evolutivo. In gennaio esce infatti Fuga dal pianeta degli umani di Robert J. Sawyer, che continua la serie inaugurata da La genesi della specie (n. 1536). Finora avevamo considerato i nostri predecessori Neanderthal come una sorta di pietosi fossili, uno scarto dell’umanità. Invece, in una realtà alternativa con cui dovremo imparare a fare i conti, sono essi il modello più evoluto, non l’Homo Sapiens. Che ci sia sotto un messaggio politico a noi sembra ovvio, tantopiù che il secondo romanzo affronta un problema delicato come la condizione della donna nelle due civiltà. Sempre in gennaio, “Urania collezione” ripropone un autore forse dimenticato dai più giovani, ma molto amato dalla generazione che vide nascere la fantascienza in Italia. Parliamo dell’inglese Charles Eric Maine e del suo terrificante, ossessivo Grande contagio. Un testo ritornato improvvisamente d’attualità e che esplora il tema della contaminazione ― batteriologica, ma anche fra i generi letterari ― con notevole efficacia. Ancora una volta, da un mondo che ha esaurito il suo ciclo potrebbe uscirne uno nuovo.

In febbraio avremo un altro libro di forte impatto come Guerra eterna: ultimo atto di Joe Haldeman, quindici racconti del massimo autore statunitense di sf bellica (e non solo). Un’antologia personale che segue l’intero arco della carriera di Haldeman, dagli esordi negli anni Settanta al 2005 ma con un’attenzione particolare rivolta ai testi maturi del periodo 1995-2005. Racconti che sono anche un duro saggio di disobbedienza civile e il frutto una scelta di campo che non ammette equivoci. In quello che dà il titolo alla raccolta, in particolare, torniamo al memorabile finale di Guerra eterna per riviverlo da un punto di vista inedito. E in “Urania collezione” troveremo Segnali dal sole del maestro dell’utopia europea Jacqes Spitz, un romanzo scoppiettante e paradossale scritto nel durissimo anno 1943. Qui una situazione apparentemente senza scampo (anzi, da fine del mondo) viene risolta con un humour nero degno della grande letteratura. E’ questo il primo romanzo tradotto espressamente per “Urania collezione”, in quanto finora inedito in Italia.

Nel volume di marzo della collana madre avremo un autore italiano ormai collaudato, Dario Tonani. In attesa che Dario appronti il seguito di Infect@, da noi pubblicato lo scorso anno, lasciamo spazio alla sua immaginazione per darci due ritratti “fuoriserie” del futuro prossimo. Il titolo del volume sarà L’algoritmo bianco e conterrà due romanzi: Picta muore, con la storia di una stranissima città che a rigore non dovrebbe neppure esistere, e L’algoritmo bianco di cui al titolo. Filo conduttore di entrambi è un’enigmatica, crudele figura di assassino che rimanda in modo inquietante a certi controeroi “neri” della narrativa d’azione. Antiutopia, dirà qualcuno: di sicuro un saggio di pessimismo della ragione (e ottimismo della volontà) per riflettere sui tempi che stiamo attraversando. Su “Urania collezione” troveremo invece I fabbricanti di felicità di James E. Gunn, racconto in tre parti che era apparso originariamente con il titolo Si garantisce la felicità. Più “cautionay tale” di questo, sarebbe difficile immaginarlo: in sostanza Gunn ci dice di diffidare di chi promette, e anzi “garantisce”, solo cose belle. Non è questa l’utopia, come la fantascienza ci ha sempre ripetuto: il futuro bisogna conquistarlo, non farselo elargire.

Nei mesi successivi “Urania” tornerà al suspense tecnologico con Fleet of Worlds di Larry Niven e Edward M. Lerner, un romanzo dello Spazio conosciuto: centinaia d’anni prima che venga scoperto Ringworld, il Mondo dell’anello, la razza dei Burattinai è costretta ad abbandonare il proprio settore a causa di un’esplosione che promana dal centro della galassia. Questo esodo di interi pianeti non sarebbe possibile senza l’aiuto di alcuni spregiudicati esseri umani che fungeranno da “esploratori” per conto della flotta burattinaia, precedendola tra i mondi potenzialmente ostili. Seguiranno il secondo romanzo di Ken Macleod, Dark Light, e il ritorno di un autore amato come Jack McDevitt con Seeker, lungo romanzo di ispirazione clarkiana che racconta la scoperta del volo interstellare, le sue prime applicazioni su vasta scala (fra settecento anni) e la ricerca di altri mondi abitabili in un futuro ancora più remoto. Senza andare troppo oltre nei secoli, nel 2009 “Urania” si farà madrina di un autore promettente come Jeff Somers e il suo ciclo della Electric Church, nonché del primo romanzo di Alastair Reynolds Revelation Space, che sarà pubblicato quasi certamente in settembre (Riccardo Valla si è impegnato a finire la traduzione). Subito dopo uscirà Rainbow’s End di Vernor Vinge, romanzo importantissimo e su cui torneremo ancora, vincitore del premio Hugo 2007.

Scivoleranno al 2010, invece, il nuovo romanzo di Michael John Harrison Nova Swing (che sarà tradotto da Vittorio Curtoni) e l’antologia di Paul De Filippo Shuteye for the Timebroker, anche questa affidata a Curtoni cui facciamo i migliori auguri per una serena convalescenza e completa guarigione. Non vogliamo lasciarvi, infine, senza annunciarvi alcune recenti acquisizioni di prestigio, che usciranno con tutta probabilità nel 2010: il nuovo romanzo della Compagnia di Kage Baker, The Life of the World to Come, e il monumentale Dreaming Void di Peter F. Hamilton che sarà necessario suddividere in più volumi. Per ora, in attesa di tante novità, non ci resta che ricordare a tutti la nostra sfida: immaginare l’utopia e diffonderla.

G.L.

[Tavole 1 e 2 di Karel Thole. Tavola n. 3 di Giuseppe Festino.]

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L’editoriale di Giuseppe Lippi: La bacheca di Halloween

ottobre 29th, 2008

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…e già che siamo in argomento, permettetemi di darvi qualche anticipazione editoriale. (“Quale argomento?”, si chiederà qualcuno. Un po’ di pazienza: questo paragrafo avrebbe dovuto trovarsi a metà dell’articolo ed è stato anticipato per entrare subito in medias res.) In breve, il 2009 vedrà qualche cambiamento nelle nostre collane, soprattutto per quel che riguarda i generi di stagione: horror e fantasy. Spariranno i supplementi dedicati a quei filoni, che tanta confusione hanno creata tra i collezionisti per via della numerazione cangiante. Rimarranno i supplementi di fantascienza: almeno per il momento, continueremo a pubblicarvi i romanzi più grossi e alcune raccolte voluminose. Per quanto riguarda il mistero e il soprannaturale, è probabile che dalla prossima primavera avremo una nuova collana mensile tutta per loro: un mix di horror e fantastico che dovrebbe fondere sotto una sola testata le esperienze di “Horror” da edicola e “Urania fantasy”.

Per i più fedeli tra voi sarà come fare un viaggio indietro nel tempo di una ventina d’anni, anche se il contenuto sarà rigorosamente aggiornato. I romanzi e le antologie saranno stranieri e italiani, contemporanei e classici. Non mancheranno le novelization di film e giochi, come Underworld e Doom, ma avremo anche autori come Robert McCammon, Robert E. Howard, i racconti del circolo di Lovecraft e via discorrendo. Per la fantasy pura stesso discorso, e attenzione: i titoli più appetibili verranno ripubblicati negli Oscar. Il nome della nuova collezione è ancora allo studio, ma si pensa a qualcosa di “epico”. Probabile uscita: marzo-aprile.

Le novità non finscono qui. “Urania collezione” si prepara a ospitare, nei primi mesi dell’anno nuovo, il suo primo inedito: Les signaux du soleil di Jacques Spitz, eretico romanzo francese dell’autore che ci ha già conquistato con L’occhio del purgatorio e i due romanzi di Incubi perfetti. Per non trascurare nessuno, infine, una doverosa comunicazione ai lettori che ci chiedono notizie di due cicli avviati e non ancora conclusi: il prequel di Dune dovuto a Brian Herbert e Kevin J. Anderson (manca all’appello House Corrino) e il raccapricciante settimo romanzo della serie Resident Evil dovuto a S.D. Perry, Zero Hour. Darò in pubblico la risposta che ho già dato ad alcuni appassionati i quali mi hanno scritto in privato: siamo intenzionati a tradurre House Corrino e l’abbiamo richiesto da qualche tempo agli editori americani, ma non abbiamo ancora ottenuto i diritti. Perché queste lungaggini? Potrebbe darsi che gli autori non vogliano scendere sotto la cifra pagata dalla Mondadori per le precedenti edizioni rilegate e quindi giochino al tira e molla con il prezzo dell’ultimo capitolo. Noi di “Urania”, però, non abbiamo un budget paragonabile a quello degli Omnibus (i quali, lo ricordo ai neofiti, hanno da tempo rinunciato a proseguire le pubblicazioni della serie) e non possiamo impegnarci nella stessa misura. Come si concluderà la faccenda? Appena ci saranno novità, le comunicheremo su questi schermi.

Diverso il caso di S.D. Perry, autrice del romanzo Zero Hour. In questo caso il motivo della ritardata risposta non può essere economico, dato che anche i primi sei volumi di Resident Evil sono usciti come supplementi di “Urania” e in veste tascabile. Deve trattarsi quindi di un’infamità burocratica, di un buco nero nella corrispondenza tra il nostro ufficio e il loro, di un sortilegio fatto da un editore concorrente e invidioso… A voi la scelta. Certo è che appena la signora Perry e i suoi rappresentanti ci daranno il benestare, noi metteremo in traduzione questo prequel della macabra serie.

Il cui argomento ben si adatta a questo periodo dell’anno, nel quale gli aglosassoni festeggiano Halloween e i bambini sardi “su mortu mortu”, cioè i dolcetti che si regalano ai più piccoli quando bussano alla porta. La Sardegna è una delle poche regioni italiane in cui quest’antica tradizione non è stata importata dall’estero, ma continua immutata da centinaia d’anni: tanto per dire, la zucca svuotata viene chiamata “s’animedda”, l’animuccia. I bambini passano di casa in casa, aprono una federa per guanciale che dovrà contenere le caramelle e gridano: “S’animedda, s’animedda!” Il che ci riporta all’argomento del nostro articolo, la riflessione del mese (o del bimestre, visto che il mese scorso abbiamo saltato una puntata). Siamo alla fine d’ottobre, quindi non meraviglia che uno degli argomenti preferiti al bar e in ufficio sia l’altro mondo. Attenzione, però: non gli altri mondi cui ci ha abituati la fantascienza, con i loro satelliti, i loro extraterrestri e perfino i loro spazioporti. Queste son cose risapute, addirittura un po’ mondane, che raramente mettono i brividi. La vigilia d’Ognissanti è fatta invece per le cose eterne… definitive. Qualcuno dirà che l’aldilà è più provinciale, meno alien d’un satellite di Giove, ma a conti fatti è anche più saturo di interessi umani, delle speranze (e spesso i terrori) di un’intera specie. Creatura di un giorno, l’uomo soffre a tutte le ore; nell’ultima, quella che non ferisce ma uccide, spera d’intravvedere qualcosa oltre il freddo della terra negra. E’ a questo punto che il Gran Tour dell’oltretomba si fa simile a un viaggio in un’altra dimensione, un po’ come quelli di un film di fantascienza. Federico Fellini l’aveva capito e voleva girare Il viaggio di G. Mastorna, un itinerario tra i mondi dell’ex-vita e dell’ex-voto, nella speranza di fotografare il locus solus situato oltre il limite di velocità della morte. Improbabile? Non più di quello che accade nell’Assurdo universo di Fredric Brown, dove se un missile ti cade sulla testa non è detto che i tuoi pezzettini si sparpaglino per miglia intorno, ma possono ricomporsi fuori dell’universo, in un inferno/paradiso fatto apposta per gli appassionati di science fiction.

Del resto, la fantascienza si è spesso occupata di vita dopo la morte. Ricordo ai distratti che a questo tema “Urania” ha dedicato un’antologia nel 1990, Altre vite a cura di Pamela Sargent e Ian Watson (n. 1130), che potremmo utilmente ripassare in questi giorni. Un altro caso celebre è Vertice di immortali di Robert Silverberg, romanzo in cui la morte non significa più annullamento della coscienza. Oppure l’irriverente Anonima aldilà di Robert Sheckley, che è stato scritto più di dieci anni prima del libro di Silverberg ed è altrettanto devastante. Quanto all’atteggiamento dei lettori verso le avventure nell’afterlife, è ambivalente: da una parte sembrano accettarle se portano la firma di un grande della sf come Silverberg o Sheckley, dall’altra le rifiutano se ritengono che si tratti di contaminazioni con l’horror puro e la fantasy. Perché? Per una questione di codici, o meglio di linguaggi codificati.

Mi spiego. Quando si parla di certi temi non c’è razionalismo che tenga e la scienza sembra potervi ben poco, ma nonostante questo è rassicurante, per alcuni, avventurarsi nell’aldilà con un razzo anziché con un fantasma e trovarvi un mondo carnale (come nel Fiume della vita di Philip Josè Farmer) invece di una schiera d’anime in pena. Questione di icone che cambiano, di costumi che si evolvono persino al purgatorio: eppure, la sostanza rimane la stessa. Ce lo dimostra un altro celebre romanzo di Farmer, quell’Inferno a rovescio che tanto fa discutere i lettori versati in teologia. Nonostante i gusti dei singoli, insomma, l’aldilà resta un tema squisitamente fantascientifico e anche se ci andremo con un razzo le conseguenze non saranno meno perturbanti. Prendete quel gran colombario che è “L’astronave della morte” di Richard Matheson e ne avrete l’ultima prova.

Tutto bene, ma con questo cosa avremo voluto dire? Niente di particolarmente nuovo: solo che la science fiction ha vari punti di contatto con i viaggi all’Estrema Soglia; che a volte sembra una versione aggiornata del cammino dantesco per i tre regni dell’immaginario spirituale. I pianeti esterni, le nebulose Sacco di carbone, i wormhole, non sono forse che nuove immagini dell’inferno e del paradiso, mentre i dischi volanti, gli alien, i robot evidenti modificazioni di angeli e demoni. In un mese come questo potremmo avventurarci a concludere che il genere poliziesco abbia glorificato la morte anonima nel XX secolo, mentre la fantascienza avrebbe rappresentato il tentativo di esplorare la morte scientifica, un’altra caratteristica dei tempi. Che la sf sia un genere un po’ faustiano, è risaputo: in cambio di aver ceduto l’anima a Mefistofele (al dottor Morbius, se preferite), abbiamo per amante Urania, musa che governa le stelle di un firmamento indulgente. Ma non è detto che non la riscatteremo, quell’anima venduta. La partita non è ancora chiusa, si accettano scommesse.

Giuseppe Lippi 

[L’illustrazione di “Jack O’Lantern” è opera dell’artista americano James Torlakson.]

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L’Editoriale di Giuseppe Lippi: Gioco d’Agosto

agosto 1st, 2008

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Prendo spunto da uno scambio di messaggi con i nostri lettori (potete leggerlo qui) per improvvisare un editoriale allucinato, come si conviene all’agosto incombente. Per il momento saluti a tutti e… arrivederci presto!

Ad agosto fa così caldo che il cielo cade. Non è un modo di dire: il termometro segna I.F., il barometro specifica interruzione fiato. Adesso lo sapete, non è una scusa per tardare l’appostamento del nuovo editoriale.
Stanotte il ronzìo del ventilatore mi ha svegliato alle 3,39.
E ho visto il cielo cadere.
Come nel romanzo di Daniel F. Galouye in vendita questo mese, il cielo di Milano, basso, mi precipitava addosso. All’ultimo momento resta in bilico sul tetto di casa: lo spio da un triangolo di finestra aperta e alta su di me. A quell’ora infelice mi sembra che piombi dritto sulle imposte.
Ora, immaginate la posizione. Un uomo supino nel suo letto di spine (la metafora è crudele, l’afa la merita) alza l’occhio a uno spicchio di cielo greve e s’accorge che è infilzato all’imposta. Pende dall’angolo di legno ingrigito come un vetro rotto, a rischio di venire ancora più giù. Al suo posto, nell’etere, una specie di bulbo bianco ― di vuoto abnorme ― manda in malora ogni velleità di definirlo “il vuoto”. Il cielo è caduto e al suo posto c’è un’altra cosa, il male, forse un occhio fatto di solo bianco.
Non posso dormire.
Ho paura delle mie stesse parole. “Il cielo è caduto”, ho detto, ed ecco che un pezzetto m’è finito nell’occhio, una scheggia, un frammento, ma non posso richiuderlo. Non è solo insonnia, è un attentato! Come la sabbia buttata in faccia dal mago del celebre racconto, anche la polvere di cielo ― dell’ex-cielo ― fa un bruciore d’inferno.
Semiaccecato e provatamente insonne, cerco di pensare allo straordinario avvenimento.
E mi domando: una volta precipitato, sarà ancora “cielo”?
Chi lo ha abbattuto?
Perché lassù è tutto bianco senza luce?
Ci vorrebbe, per capirlo, una poesia metafisica di Gianni Tulisso. Andate a ripescarla nel “Marziano in cattedra” (n. 330 o giù di lì).
Che il cielo stracada, se vuole, non so che farci.
Però, vorrei sapere. (L’utilità della fantascienza è che aiuta ad accettare l’inaudito.)
Allora, da tutto questo miracolo qualcosa posso tirar fuori anch’io. Quant’è bella la metafisica, per esempio. Ho un lettore affezionato che si chiama Stefano il quale, stupendosi che al mattino mi levi anzitempo (non sa che non ho chiuso occhio per metà della notte, ché il cielo m’acceca!), protesta in nome della noncentranza. Sostiene, cioè, che la metafisica con la fantascienza c’entra niente. E’ strano, sarà un vizio di forma, ma io penso che a volte c’entri moltissimo. “I nove miliardi di nomi di Dio” di Arthur Clarke? La città sostituita di Philip K. Dick? Assurdo universo di Fredric Brown?
Eppure, Stefano e i lettori che la pensano come lui…
Quello che mi pare di capire è che a loro non vada un certo tipo di linguaggio, ma io faccio osservare, con calma, che è solo questione di intendersi. Metafisica vuol dire: che va al di là della fisica e quindi, a rigore, quasi tutto quel che passa il convento fantascientifico.
Ad esempio:
― L’iperdrive;
― L’iperspazio;
― Gli universi paralleli;
― La storia alternativa;
― Gli extraterrestri (o le macchine) tanto intelligenti da sembrare dèi;
― I viaggi nel tempo.
Mi fermo qui, ma potrei continuare.
L’idea che il cielo mi cada in testa perché è venuta meno la volontà che regge l’universo non è affatto peregrina, anzi. E’ fantascientifica. Io credo che i lettori vogliano esprimere semmai, con la loro incredulità, un’altra critica, quella della ragion pura. L’anatema kantiano contro ogni principio assoluto, essendo venuti i tempi della ragione…
Da questo punto di vista, rispetto la loro posizione. Ma, e il paradosso? Dove mettiamo il paradosso? Buttiamo davvero a mare i racconti di Clarke, di Dick, di Brown che ho ricordato prima?
No, la risposta è no. Non li buttiamo affatto, semmai li prendiamo come sogni (e non sonni) della ragione. I guai, con la metafisica, cominciano quando qualche capo setta vuole spacciarla per dogmatica verità. Se questo avviene, è bene combatterla con forza, e anzi guardate che vi dico: se domani apparisse un capo setta che vuole proclamare la religione della fantascienza, io mi dissocio.
Non ci sto.
Se invece mi parlano di velo di Maya, miti, sogni, Borges e mysteri (in un saggio, in un romanzo, in un racconto…) questa è quasi sempre musica per le mie orecchie.
Perché leggerei fantascienza, altrimenti?
Non m’interessano solo i mondi visibili, ma gl’invisibili.
Mi piacciono gli antimondes.
“Urania”, la sua parte per la divulgazione d’una corretta patafisica l’ha fatta. Il punto nero di Aldo Palazzeschi (n. 758) è un case in point; Il cabalista di Amanda Prantera (n. 1280) è un esercizio elegante; “Scendendo” (n. 462) di Thomas M. Disch è un racconto scioccante che si può rileggere in chiave sociologica, ma l’impianto è molto più terribile. L’altra realtà di Henry Kuttner (n. 1132) ha un inizio che sembra fatto apposta per mandare in pezzi la ragione. Per tacere della raccolta più conturbante di tutte, Essi ci guardano dalle torri di J.G. Ballard (n. 371).
Ma il diploma, la laurea ad honorem spetta a Stanotte il cielo cadrà di Daniel F. Galouye, dove non c’è più salvezza sulla terra, la luna, Marte o nelle spirali delle nebulose più lontane. Perché il demiurgo s’è scosso nel sonno e quell’occhio bianco mi fissa da dov’era il cielo.
La fantascienza radicale non si ferma al solo livello della veglia. Va oltre, dentro i sotterranei. Esplora le catacombe dello spaziotempo, si avvicina alle fondamenta.
E quando le tocca, l’universo trema.
Ora, far tremare le fondamenta del cosmo (fabbricate da noi, ideate da noi, investigate dai nostri pensatori) significa mettere radicalmente in dubbio la percezione che avevamo dell’eterno arbitrio. Nobile operazione, fantascientifica quanto poche altre.
Ma ora basta: in fondo, dicevamo tutti la stessa cosa. Vorrei solo che al giorno d’oggi ci fosse più metafantascienza. Più semplici concetti provocanti, immagini apocalittiche, specchi dell’assurdo.
Come l’agosto folle, assurdo per definizione.
Come il cielo che mi fende l’occhio.
Come scienze impazzite che si rivoltano a mo’ di maniche d’una camicia. Vostro è il mese più assente dell’anno, fantascienze.

Giuseppe Lippi

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