Fredric Brown, vagabondo nello spazio della mente

maggio 1st, 2014 by Moderatore

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Il vagabondo dello spazio (Rogue in Space, 1957) è un volume in due parti ottenuto dalla riscrittura di due lunghi racconti apparsi precedentemente su rivista: “Gateway to Darkness” (in “Super Science Stories” del novembre 1949, tradotto in italiano come “Fuga nel buio” ma con il titolo originale tramutato in Rogue in Space) e “Gateway to Glory” (in “Amazing Stories”, ottobre 1950). Il libro che ne deriva ha la particolarità di essere uno dei pochi noir d’ambientazione spaziale e il protagonista Crag, un delinquente della più bell’acqua, sembra quasi il modello su cui Richard Stark plasmerà qualche anno più tardi il suo celebre Parker.

In questa nuova edizione il testo viene proposto per la prima volta in forma integrale, oltre che in una traduzione moderna che ne mette in risalto l’ironia e – nella seconda parte – la critica del modo di vivere americano che forse esporteremo sugli altri mondi. Crag, il protagonista di una vicenda senz’altro in anticipo sui tempi, è il classico lupo solitario del romanzo criminale, il bandito di ventura durissimo e spietato che agisce in un mondo dove si sente, e vuole essere, totalmente solo. È anche la sua caricatura, o almeno lo stereotipo del duro che in un’ideale galleria dell’Anonima carogne figurerebbe al piano nobile, come il ritratto del fondatore.

Sì, perché nel 1957 non esisteva una tradizione di carogne letterarie come quella che vantiamo oggi, e che ha nell’antieroe di Richard Stark (nato nel 1962) il suo primo monarca ufficiale; sicché il romanzo di Brown, che a posteriori sembra uscito da quella fucina, ne è invece l’iniziatore.
Il bandito di Brown come proto-Parker, dunque, ma non solo. In comune con lui ha una certa frigidità quando lavora, ma a differenza di Parker che, terminato un colpo, si rilassa con la sua donna, Crag ha terrore di ogni coinvolgimento affettivo e sessuale. Ergo, è frigido anche a riposo. Le donne gli piacciono ma lo turbano; con gli omosessuali è decisamente sgarbato. Come Parker, si sente una tigre pronta a scattare, costantemente sulla difensiva e dai riflessi micidiali. Non si può imbrogliare uno come lui: si è morti prima. Uccidere non lo infastidisce, veder morire neanche. Quando una donna che lo ha colpito profondamente rischia la vita, Crag non ha rimpianti né moti di compassione: un po’ perché spera che morirà lui stesso (non è un amante dell’esistenza, tutt’altro), un po’ perché, mal che vada, si sarà liberato di un sentimento. Rogue in Space è uno dei rari romanzi di fantascienza interamente costruiti su un personaggio e Crag è un protagonista come se ne trovano pochi persino in un genere bizzarro; forse gli si può avvicinare il Gully Foyle di Alfred Bester, che tuttavia, prima di venire lasciato a morire nello spazio, era un uomo normale.

Crag, nasce il dubbio che normale non sia mai stato. Era ed è un energumeno, una forza della natura, un fascio di nervi e repressioni che funziona come un meccanismo ad orologeria.

Nella prima parte del romanzo Brown lo tuffa in un’avventura spericolata ma abbastanza tradizionale sul pianeta Marte (che rischia la polverizzazione a causa di una reazione a catena, ma questa è un’altra faccenda); nella seconda, una vicenda che comincia con la resurrezione di Crag dalla morte – il che lo pone tra i massimi eroi dell’assurdo universo browniano – si diverte a metterlo di fronte ai suoi peggiori incubi: noia, mancanza di scopo e di interesse nella vita, frustrazione. L’obbiettivo della nuova impresa sarà ritrovare se stesso e la donna che ama inconsciamente, perché un paradiso materiale non basta. Per raggiungere lo scopo e anzi, per dare una ragion d’essere all’esistenza, il nostro antieroe dovrà prendere coscienza di sé, visto che finora si è nascosto come stessero veramente le cose.

Ci riuscirà perché non è pazzo, è soltanto furioso come l’Orlando ariostesco che ha perso il senno per amore, ma la rivelazione di chi egli sia veramente lo spingerà ad abbandonare il vecchio mondo e a trasferirsi su un pianeta fatto apposta per lui. Nel trasferimento riceverà un mano dal demiurgo del romanzo, una curiosa creatura che Brown immagina alla stregua di un asteroide vivente, un bel pezzo di pietra telepatico che all’epoca in cui il volume uscì per la prima volta fu piuttosto criticato (anche da Anthony Boucher) per la sua implausibilità. Oggi che di tali scrupoli non ne abbiamo più, siamo liberi di vederlo come una vera e propria manifestazione della saggezza, di quella pietra più filosofale che spaziale la quale non simboleggia gli extraterrestri verosimili che popoleranno tanta fantascienza, ma piuttosto l’inconscio che riaffiora e parla interiormente, portando a galla i nostri bisogni ed emozioni. Un po’ come il pezzo di legno parlante di Mastro Ciliegia, insomma.

Sono stati Carlo Fruttero e Franco Lucentini a definire Brown “il massimo specialista dell’assurdo”, ed è particolarmente adatto a un biografia letteraria notare come, per contrasto, la sua vita sia stata del tutto regolata e normale. L’autore di “Sentinella”, “La risposta”, “Questione di scala” e cento altri racconti sorprendenti e mistificatorii, viaggia con la mente, non con il corpo, e descrive una realtà-shock che è soprattutto interiore. Nei casi più bizzarri, quando non si riesce proprio a raccapezzarsi, potremmo scambiarla per una proiezione totale del cervello, come nelle fantasie dei solipsisti, ma scopriremo che non è così; negli altri casi, sembra corrispondere a un crudele rovesciamento dei nostri princìpi. Se la scena ci appare beffarda e radicalmente infida, è perché non è tagliata sulle nostre illusioni: il grande contributo di Fredric Brown sta nel non aver fabbricato altre consolazioni ma nell’averci insegnato l’arte del disinganno, la scoperta di ciò che sta oltre le convinzioni e convenzioni della falsa coscienza.

Scrittore ricco di idee paradossali ma, come dicevamo, di modeste circostanze nella vita di tutti i giorni, Brown nasce a Cincinnati, Ohio, nel 1906. E’ figlio unico e rimane orfano molto presto: la madre muore nel 1920 in seguito a una grave malattia, il padre a un anno di distanza. Praticamente è ancora un ragazzo quando viene assunto come factotum presso una ditta di Cincinnati, la Conger & Way; da questa esperienza trarrà il romanzo autobiografico The Office, pubblicato nel 1958. Ogni tanto va a lavorare in un luna-park ambulante come più tardi il suo personaggio Ambrose Hunter, dividendo la tenda con un lettore del pensiero. Alcuni dei più bei suspense scritti da Brown si svolgeranno nell’ambiente di luna-park, fiere o carnival bizzarri: basti ricordare The Dead Ringer (1948, in it. Delitto senza preludio), in cui il nano di un baraccone sembra essere stato ucciso dal fantasma di una scimmia (!), oppure Madball (1953), uno dei più imprevedibili romanzi del genere, in cui l’assassino è rivelato al lettore abbastanza presto, ma i colpi di scena e la micidiale conclusione hanno tuttora un effetto devastante.
A vent’anni Brown si iscrive all’università dello stato e poi all’Hanover College in lndiana, ma senza laurearsi.

Nel 1929 sposa l’omonima Helen Brown (prima del matrimonio non esistevano legami di parentela) e si trasferisce a Milwaukee, dove è correttore di bozze per la tipografia Cuneo Press e in seguito per il Milwaukee Journal. Dal matrimonio nascono due figli, James Ross e Linn Lewis. Per diciassette anni Brown conserva il suo posto di correttore e intanto pubblica articoli su varie riviste; poi, nel 1932, escono due raccolte di poesie a sue spese: Fermented Ink – Ten Poems e Shadow Suite – Fifteen Poems. (Buona parte di questi componimenti sono stati ripubblicati nei volumi Fredric Brown le rêveur lunatique a cura di Stéphane Bourgoin, Encrage, Amiens 1988 e Happy Ending, Dennis Macmillan, Florida 1990).

Nel 1936 comincia a vendere racconti polizieschi ai pulp magazine. Il primo racconto di fantascienza, “Not Yet the End”, è del 1941. Nella seconda metà degli anni Quaranta Brown tenta la via del romanzo con The Fabulous Clipjoint, un giallo che viene pubblicato da Dutton dopo essere stato respinto da una decina di altri editori e che vince il premio Edgar Allan Poe come miglior opera prima del 1947. Divorziato dalla prima moglie quello stesso anno, Brown si risposa nel ‘48 con Elizabeth Charlier e con lei si trasferisce a New York. Qui un suo ardente ammiratore, Leo Margulies, gli promette un posto di redattore in una casa editrice di pulp magazine, la Thrilling Publications. Ma il posto sfuma e Brown, che proprio in quei giorni è impegnato nella stesura di Assurdo universo – uscirà sul pulp Startling Stories e poi da Dutton, il suo editore abituale – decide di proseguire nella carriera di romanziere. Nel 1949, per ragioni di salute, si trasferisce con la moglie a Taos, nel Nuovo Messico.

Ammalato di asma e in seguito di enfisema polmonare, Brown dovrà gravitare intorno agli Stati dal clima secco e caldo del sudovest. Vivrà per periodi più o meno lunghi anche in California (Venice Beach, nei pressi di Los Angeles) ma poi dovrà stabilirsi a Tucson, Arizona, dove rimarrà fino alla morte avvenuta nel 1972, a sessantacinque anni.

Nel suo primo capolavoro poliziesco, The Fabulous Clipjoint (1947 , in italiano Il sangue nel vicolo), Ambrose Hunter dimostra al nipote Ed che la chiave di ogni esperienza umana è la scoperta di se stessi. Bisogna scavare sotto le apparenze, il più delle volte nei meandri di sé, e accettare quello che ne verrà fuori anche nel suo aspetto traumatico, perché la rivelazione non corrisponderà ai miti che avevamo fabbricato. Ed, un ragazzo di diciotto anni cui hanno appena assassinato il padre, riflette su quanto è accaduto e si pone la domanda che più tardi si porrà Keith Winton in Assurdo universo: “Chi sono io?”. Lo zio risponde: “Sei un amareggiato, ragazzo, amareggiato fino al midollo. E non soltanto per la morte di tuo padre Wally. No, credo che lo fossi anche prima. Per favore, vai alla finestra e dai uno sguardo”.
Ed osserva il panorama di Chicago da una squallida finestra d’albergo e lo zio incalza: “E’ proprio quello che volevo tu vedessi, ragazzo.

Quando guardi da una finestra, quando guardi una cosa qualsiasi, sai che cosa vedi? Te stesso…”. Dunque, la realtà come ci appare è uno specchio; se siamo disperati, vedremo cose terribili anche fuori di noi. Nel primo e magistrale romanzo di fantascienza, Assurdo universo del 1948, il premio di quel carnevalesco e terrificante balletto sembra essere il paradiso, ma cos’è il paradiso? Un mondo alternativo e materiale quanto il precedente, addobbato con i fasti e gli scarti della fantascienza perché il protagonista è il direttore di una collana di fantascienza (vista qui, ironicamente, come una sorta di “religione” popolare). Un universo situato al di là della morte eppure reale, capace di ucciderci molte volte ancora: non bisogna dimenticare, infatti, che l’eroe del romanzo – il direttore di “Storie sorprendenti”, Keith Winton – dovrebbe essere morto nel suo mondo e trapasserà di nuovo in quello di Dopelle. Assurdo universo è un viaggio nell’aldilà per i tempi moderni, un’epoca in cui l’immaginazione non è più confortata da speranze collettive di salvezza, né può redimerci o fornire scappatoie che non siano temporanee e in definitiva ingannevoli.

La fantasia, per Brown, non basta per sfuggire alla realtà totalizzante proprio perché è un suo prodotto; ma può diventare un mezzo per arrivare alla consapevolezza di chi siamo veramente.
In effetti, esiste un solo modo per superare lo shock del crollo dei miti che ci eravamo auto-imposti, suggerisce Brown: arrivare fino al livello atomico del reale e scomporlo. Successivamente saremo in grado di ricomporlo con varie tecniche: la logica della scoperta nei romanzi polizieschi, quella del desiderio (una sorta di patafisica) nella science fiction. Assurdo universo, che è anche una decostruzione della creazione romanzesca, riassume tale operazione, condotta in porto dall’autore con uno sforzo superiore, un’abbinata delle forze consce-inconsce per uscire dalla palude. La natura della “total-realtà” viene analizzata e ricostituita finalmente a nostro vantaggio, cioè libera da pregiudizi, perché la natura dell’inconscio magma del desiderio è stata riconosciuta come parte fondamentale del quadro. Ed è questo il motivo per cui, alla conclusione della sua odissea, Keih Winton potrà emergere finalmente in un mondo “fatto per lui”.

L’originalità di Brown sul piano artistico consiste nell’aver smontato le pastoie della vecchia fisica e metafisica: la prima legata ai limiti di un solo universo, la seconda a speranze di trascendenza esterne e regolate da princìpi moralistici. Riconoscendo la centralità dell’inconscio e senza cedere a un irrazionale nichilista o poetico (ma fine a se stesso), Brown ha messo la sua visione al servizio di una volontà demistificatrice che negli anni avrebbe prodotto una serie di rigorose e paradossali opere letterarie, di cui Assurdo universo e il successivo Marziani, andate a casa (1955) sono gli esempi più perfetti. L’eroe dei suoi racconti, un individuo proiettato in un universo inaudito che gli appare come una gigantesca trappola, è messo di fronte a una situazione di paradosso personale di cui la scena dell’avventura è un’immagine beffarda. Solo le facoltà interiori, la forza di educarsi al disinganno (nonostante lo sconvolgimento che comporta) lo aiuteranno a venirne fuori. La rivelazione finale, doppiamente beffarda, è che tutto è esattamente come sembrava ai cinque sensi, ma che per essere in grado di percepire la realtà “assurda” o folle che non ci aspettavamo – e che invece è l’unica possibile – bisogna rieducarsi alla ragione. Imparando a capire, per esempio, che i prodotti della mente non sono chimere ma esistono, che una realtà interiore esiste anche se è spesso inconscia.

Capire i suoi meccanismi aiuta a servirsene: Carson, il protagonista del racconto “Il duello” (Arena, 1944), riesce a superare la barriera invisibile che lo separava dal suo avversario, e a ucciderlo, grazie a uno stratagemma che consiste nell’ampliare la coscienza. Dandosi una botta in testa – dunque, mettendo fra parentesi la percezione consueta – ha potuto raggiungere la sfera rossa situata oltre la barriera immateriale; abbandonando il livello della “normalità” e accettando l’assurdo della situazione è riuscito a sconfiggere il nemico. Il colpo in testa grazie al quale Carson supera la barriera equivale al missile che precipita sulla testa di Keith Winton e lo sbalza in un assurdo universo, o al colpo mortale – sempre alla testa – che uccide Wally Hunter nel Sangue nel vicolo, scaraventando lui nell’aldilà e suo figlio Ed nell’avventura dell’emancipazione. Il velo crolla, i pregiudizi si disolvono e del mito rimane la sostanza, che come nel sogno è fatta di desiderio ma che d’ora in poi non verrà separato dalla ragione, trasformandosi in conoscenza.

Nei gialli di Brown la conoscenza coincide con la soluzione del mistero, che porta in genere a una rilevante scoperta personale. Alla fine di The Fabulous Clipjoint l’incubo appare a Ed Hunter più autentico ma ridimensionato; e la visione adulta e liberata dai pregiudizi di Keith Winton, Am Hunter e dello spaziale Carson hanno diversi punti in comune. In un giallo successivo, The Screaming Mimi del 1949 (in italiano La statua che urla), il processo avviene alla rovescia: il protagonista è un alcolizzato che assiste a un delitto sotto i fumi del liquore e per trovarne la chiave deve procedere da uno stato di coscienza alterata – condizione che contiene tuttavia la soluzione dell’enigma – a uno stato di lucidità, dove la rivelazione possa essere recuperata.

Per il nostro autore l’alcoolismo è una dimensione ben nota; un suo collega più giovane, il giallista Bill Pronzini, ha osservato: “La maggior parte dei personaggi di Brown sono alcoolisti, come un po’ lui stesso: individui che hanno bisogno di un leggero stato etilico per funzionare sotto le pressioni caotiche della società di tutti i giorni”.

Insieme al bere, due sono state le fonti di euforia per Fredric Brown: il suo flauto, che suonava tranquillamente in casa, e la pittura, che esercitava nello studio in cui scriveva anche i racconti. (Nella casa di Taos lo studio era quello in cui avevano assassinato il primo governatore americano del Nuovo Messico, fatto che rendeva Brown particolarmente orgoglioso.) Il soggetto di alcuni quadri browniani è il gatto Ming-Tah, che a giudicare dalle riproduzioni contenute nel volume di Stéphane Burgoin, Le rêveur lunatique, è stato ritratto dal padrone in uno stile sorprendentemente “buzzatiano”.

Fredric Brown appartiene alla razza degli scrittori che fanno il mestiere quasi loro malgrado, perché una forza ce li costringe. Soffre quando scrive e non ne fa mistero, gongola solo nel momento in cui il lavoro è finito. A qualcuno questa posizione potrebbe sembrare eccentrica, ma evidentemente si tratta di persone che non hanno provato l’incubo dello scrittore, descritto al meglio in Marziani, andate a casa. Lo scrittore è una figura ambigua, situata su un incerto confine, ma quando si tratta di un autore lucido come il nostro non può sfuggire alla consapevolezza che la realtà fisica e il banale esercitano su di noi una minaccosa tirannia. Da un lato, come tutti gli altri, sa di essere costretto a fare quello che fa perché l’infinito lo ha sistemato in quella nicchia particolare; dall’altro, si rende conto che se Tutto Esiste e Tutto è Così, la granitica total-realtà che ci contiene comprende anche l’ex-bizzarro e l’ex-insolito, ingredienti apprezzabili proprio per il paradosso che è insito nella loro riscoperta “dentro la gabbia”. Scrivere è un modo di prendere definitivamente coscienza del reale, ma anche di esplorare l’obliquo e il lunatico nelle pieghe dell’ordine. In questo senso lo scrittore – e Brown più di tutti – diventa umorista: forse non ci sarà molto da ridere, ma finché ne resta una briciola, lo humour è un’arma in mano nostra come il senso dell’assurdo.

Nel suo secondo romanzo di fantascienza, The Lights in the Sky Are Stars (1953, Progetto Giove), il tentativo di evasione dalla gabbia è così realistico che sembra di leggere un libro scritto oggi. Il romanzo racconta la storia di Max Andrews, ex-astronauta, ultracinquantenne, invalido – ha perso una gamba in missione –, amareggiato da un’esistenza randagia ai margini di un’America ingrettita e conservatrice. Con l’aiuto di una donna, la coraggiosa senatrice Gallagher, Andrews si batte per far approvare al Congresso il progetto di un nuovo razzo che scenda sulle lune di Giove. Il romanzo è stato definito “un libro a favore del volo spaziale e, al tempo stesso, il ritratto di un uomo che ne è ossessionato”. Sconcertato dall’ipocrisia e dalla mancanza di prospettive del suo mondo, l’ex-astronauta decide di evaderne. Ma Progetto Giove non è solo un potente appello al volo spaziale: è un richiamo rivolto a noi perché rompiamo le pastoie e ricominciamo a giudicare, a far fruttare le facoltà critiche.

Alla fine del libro, approdando a una teologia tutta umana, Brown confessa di desiderare il giorno in cui l’uomo sarà pienamente realizzato: “Oh, Ellen, se potessi essere con me a veder partire il nostro razzo. Il nostro razzo. Aspettando nel buio, mi sento umile davanti alle ombre e davanti a te, davanti all’uomo e al suo futuro, davanti a Dio se c’è un Dio prima che lo diventi l’uomo”.
Nel 1955 appare il terzo romanzo fantascientifico di Fredric Brown, Martians, Go Home (Marziani, andate a casa). È la logica conseguenza e, in un certo senso, il ribaltamento di Assurdo universo : la normale realtà terrena viene stravolta dall’arrivo di milioni di ometti verdi, intangibili e quindi invulnerabili ma onnipresenti: ci spiano, ci fanno dispetti, distruggono la nostra intimità e poco a poco mandano a catafascio la società organizzata. A un certo punto uno scrittore di science fiction, Luke Devereaux, si convince che i marziani siano un frutto della propria immaginazione e smette di vederli. Tutti gli altri, peraltro, continuano a esserne afflitti: questo vuol dire, si domanda Luke, che non solo gli ometti verdi ma il mondo intero è un parto della mia fantasia? Con grazia e umorismo Brown dà libero sfogo ai suoi incubi solipsistici, esplorandone tutta la gamma; il romanzo alterna le parti puramente narrative a quelle in cui viene rivelato, tassello dopo tassello, il disastroso quadro della situazione mondiale, raggiungendo punte di rara lucidità e ironia. La conclusione possibile, però, è sempre la stessa: se non ci si può liberare dalla tirannia dell’onnipresente Qui e Ora bisogna osare, compiere un ultimo volo dentro se stessi e recuperare la ricchezza (le risorse) che la vita ci offre nell’interiorità. In Assurdo universo bisognava ricostruire, tassello dopo tassello, “un mondo fatto per noi” oltre la tirannide della fantascienza addomesticata. In Marziani, andate a casa bisogna volere la fine dell’allucinazione, immaginare non altri ometti verdi ma la padronanza della propria mente sgombra.
Nel 1957 è la volta del Vagabondo dello spazio (Rogue in Space), accolto dalla critica con maggiori riserve del solito.

L’ultimo romanzo di fantascienza browniano esce nel 1961 con il titolo The Mind Thing (da noi Gli strani suicidi di Bartlesville): una “mente” venuta dallo spazio ingaggia una battaglia mortale con lo scienziato dottor Staunton e la signorina Amanda Talley, un’insegnante di matematica appassionata di fantascienza che per qualità deduttive ricorda Hildegarde Withers, l’investigatrice di Stuart Palmer. È la messinscena del classico scontro fra poteri mentali e fisici, in cui la realtà corporea è condizionata dalla mente venuta dallo spazio e rischia costantemente di soccombere alla forza di questo super-Io soltanto all’apparenza estraneo.

Poco a poco la malattia respiratoria incalza e Fredric Brown riduce l’attività: fra il ‘61 e il ‘63 pubblica ancora due romanzi polizieschi, The Murderers (Gli assassini) e The Five-Day Nightmare (Cinque giorni d’incubo). Nel 1963, il suo ultimo anno di scrittura, fa uscire un’antologia di racconti gialli (The Shaggy Dog and Other Murders), un ultimo racconto di fantascienza, “Eine Kleine Nachtmüsik” in collaborazione con Carl Onspaugh, e l’avventura di Ed Hunter Mrs. Murphy’s Underpants. Nel 1968 e nel 1971 verranno pubblicati rispettivamente una raccolta dei racconti di fantascienza scritti negli anni precedenti e un libro per bambini, Mitkey Astromouse, anche questo ricavato da materiale preesistente. L’enfisema polmonare, ormai grave, gli impedisce qualsiasi attività impegnativa e Brown scriverà nel ‘71: “Sono ormai anni che non faccio più niente di creativo”. Quando muore a Tucson, l’11 marzo 1972, ha soltanto sessantacinque anni. Nella sua carriera ha pubblicato ventotto romanzi (dei quali cinque di fantascienza) e circa trecentosettanta racconti, di cui un centinaio fantastici o fantascientifici. Brown, in effetti, è un maestro del racconto breve e alcuni dei suoi capolavori appartengono a questa forma. Il corpus delle sue short stories è uno dei capisaldi della moderna sf e più in generale della narrativa d’immaginazione.

A quarant’anni dalla morte del grande scrittore, c’è un racconto che ricordano praticamente tutti, anche quelli che abitualmente ignorano la fantascienza. E se non l’hanno letto con i propri occhi, se lo sono fatto raccontare dagli amici. E’ una storia crudele, ambientata su un lontano pianeta dove “noi” difendiamo l’ultimo avamposto della galassia contro il nemico venuto dallo spazio. E’ notte e fa freddo, e la “Sentinella” del titolo è tormentata dalla fame. Ha paura perché il nemico è subdolo, può arrivare in qualsiasi momento, confondersi con le ombre e ucciderci nel tempo di girare gli occhi… Il nemico è sconosciuto, pericoloso e ripugnante. Nel nostro esercito le hanno sentite in tanti, le dicerie sul loro conto: esseri schifosi, bianchicci, con solo due braccia e due gambe, e senza scaglie…

Questa famosa storia di guerra, il cui miracolo è tutto nel punto di vista, è la punta dell’iceberg nella produzione di Fredric Brown, forse il più celebre autore di racconti-lampo della fantascienza (“Sentinella” è lungo una pagina). Una produzione vasta quanto ingegnosa, perché nel formato breve Brown sfrutta al meglio il suo celebre umorismo e il finale fulminante a sorpresa, alla O. Henry, che spiazza lettori e critici alla stessa maniera. L’altro esempio famoso, “La risposta”, pone ugualmente un problema di scala, anche se la protagonista è un macchina immensa e non una sentinella infreddolita negli avamposti dello spazio. Se la macchina è abbastanza grande e potente, allora la domanda suprema della nostra cultura (“Esiste Dio?”) potrà trovare una risposta buona per il metro umano: “Sì, adesso Dio esiste”. In un racconto precedente, il crudele “Vieni e impazzisci”, Brown aveva risolto in modo molto diverso la questione della divinità, fornendoci una rivelazione non a misura d’uomo: Dio è una collettività, per l’esattezza quella delle formiche.

Insieme a “Questione di scala”, in cui l’umanità viene sterminata con l’uso di un insetticida, sono esempi ancora oggi affascinanti di quel genere pirotecnico e ingegnoso che gioca le proprie carte con eleganza e sensibilità, e che pochi hanno portato alla perfezione. Dopo l’era di Fredric Brown si è verificata una svolta radicale nel campo della narrativa popolare, forse non sempre in direzione della lucidità. Se vogliamo ascoltare ancora una voce matura, un inventore dall’inesauribile fantasia e che sfugge agli incasellamenti e alle classificazioni, non ci resta che rivolgerci al genio paradossale della fantascienza e del giallo, Fredric Brown.


Giuseppe Lippi

Posted in Antigravità

2 Responses

  1. Gianfranco "Lucky" Lucchi

    Grazie Giuseppe

    GianLucky

  2. Antonino Fazio

    Uno splendido articolo di presentazione per un grandissimo autore! :-)

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