Viaggio al termine del purgatorio
Da non perdere il romanzo di questo mese, un capolavoro offerto nella migliore edizione di sempre.
«L’occhio del purgatorio: “Viaggiare nella causalità” – Il tempo della mosca, quello della mucca e quello dei batteri – L’espediente di Dagerlöff – Cibo già digerito, vino che è già piscio – Critica dell’ideologia quotidiana – “Non vedo più il nuovo” – La fotografia – Vedersi morire allo specchio – Il sole pallido…» E’ il sommario del lungo intervento con cui Wu Ming 1 ha parlato del romanzo di Jacques Spitz alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, il 1° giugno 2011. Il lettore curioso ne trova la registrazione audio al sito http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4353, dove potrà rendersi conto di come L’occhio del purgatorio – un piccolo capolavoro del ‘900 – venga accostato non casualmente a un altro grande testo sulla visione del futuro, “Il continuum di Gernsback” di William Gibson. Anzi, in entrambi i casi è possibile tracciare una «differenza tra futuro e “presente invecchiato” simile a quella già introdotta da Fredric Jameson nel suo Archaeologies of the Future (2005)», e quindi «tra “programma utopico” e “impulso utopico”.» Il critico può così «prendere di petto il problema del tempo e del controllo capitalistico sui tempi.» Passando a un piano più esplicitamente politico, Wu Ming 1 parla poi «del rischio che i movimenti subiscano tempi e ritmi del potere e non decidano in autonomia le proprie “scadenze”.»
L’attualità del romanzo, e più che l’attualità la sua profondità, non sono dunque in discussione. A quasi settant’anni dalla sua pubblicazione originale e a poco meno di quaranta dalla prima edizione italiana, per merito dell’Urania di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, il libro conserva tutta la sua freschezza artistica, che ce lo fa amare anche a prescindere dai temi importanti che tocca. Il suo argomento è il vedere e, purtroppo, il vedersi calati in un universo caotico ed estraneo. Ma cosa vuol dire “vedere”? Facendo alcune ricerche su internet – mezzo indispensabile ancorché sospetto, e che funziona meglio come caleidoscopio che non come disco combinatore – abbiamo cercato invano una risposta compiuta come quella che viene dal romanzo. Ci siamo imbattuti, di volta in volta, nel blog di una persona che stava perdendo la vista; in varie voci enciclopediche su Dante e San Lorenzo, protettore delle anime del Purgatorio; sulla notizia (ghiottissima) di alcuni inediti di Jacques Spitz da poco usciti in Francia, e, dulcis in fundo, nel sito della Wu Ming Foundation con il pezzo riportato sopra.
Ma vedere significa ben altro. Fra le altre cose, vuol dire amare Jacques Spitz come lo amiamo dal giorno della sua fulminea rivelazione (1973). Tenere una copia di consultazione dell’Oeil du Purgatoire sempre pronta, in una tasca segreta delle ghiandole lacrimali. Tornare a parlarne come di un indispensabile vademecum della Visione assoluta: quella che non fa affidamento soltanto sulla potenza del cristallino, della retina e del nervo ottico, ma – come l’ultra-vista di Superman – su una rifrazione d’ordine superiore.
Nel romanzo, a permettere lo sviluppo di tale straordinaria facoltà è un bacillo (c’è una ricetta chimica anche dietro la scoperta dell’invisibilità da parte di Griffin, l’inventore di Wells diffidente della razza umana quanto lo è il Poldonski di Spitz). I sali wellsiani e il parabacillo della lepre siberiana, tuttavia, non sono che lo scalino per salire al livello dell’ottica trascendente, quella che comprende nei suoi calcoli la nozione d’infinito. Grazie all’esperimento del biologo Dagerlöff e alle disavventure della sua cavia involontaria, il pittore Poldonski, frasi proverbiali come “La bellezza è nell’occhio di chi guarda” o il suo opposto, “Sembra tutto giallo all’occhio dell’itterico”, acquistano un senso più ampio e definitivo. Lungi dall’esprimere un trionfo di soggettività visuale, quelle intuizioni testimoniano un fatto sorprendente ma in fondo semplicissimo: l’occhio trasformato – l’occhio interiore – percepisce il panorama autentico, cioè la situazione del mondo; mentre quel che vediamo alla luce di tutti i giorni è un’ipocrita frazione dell’esistente. E non solo dell’esistente ma del possibile: perché in Spitz, come in Wells, il risultato consiste in un allargarsi esponenziale della possibilità.
Circostanza propizia, nell’Occhio del purgatorio Poldonski era un guardatore acido già prima dell’esperimento. Si direbbe un uomo con i peli sulla pupilla, se la frase avesse un senso (e forse ora ce l’ha). Artista senza il genio che vorrebbe, amante senza il cuore che ci vorrebbe, spregiatore del consesso civile a parte le prostitute o le avventure facili che ha collezionato in numero di 300, questo Don Giovanni della Parigi bohèmienne si sente amico soltanto della porta di casa… quando rifiuta di aprirsi per lasciar entrare un visitatore.
A paragone di una simile essenzialità, di una simile durezza, la narrativa corriva e non-filosofica di altri autori del tempo perde ogni forza. Essenzialità dell’implacabile ironia spitziana scavata nella roccia del presente; durezza come nei sottoprodotti biologici che rifiutano di uscire da dove dovrebbero, e che costa sforzi penosi espellere quando pure lo si può. La conclusione di Poldonski è lapidaria: “Dicono che il mondo fa cag…, una volgarità che non ha nemmeno la scusante di essere esatta. So benissimo che esistono le coliche, ma non è certo quella la soluzione…!”
Avvilito dall’ordine delle cose, disgustato dalla ristrettezza della visuale (che invano cerca di ampliare con il mestiere), dopo poche pagine Poldonski medita già il suicidio: “Domani mattina all’alba aprirò il rubinetto del gas”. Invece, complice un’emicrania, arriva la somministrazione della compressa Dagerlöff a base di bacilli tratti dagli occhi della lepre o della mucca – animali, secondo il biologo, che godono di una visione spostata nel futuro – e per gli occhi di Poldonski comincia un’altra vita. Un nuovo ballo. A che ritmo vertiginoso, poi! La mattina, al risveglio, la musica gli mette allegria, il mondo sorride, l’umor nero sembra miracolosamente dissolto. Il pittore sembra disposto a ballare con tutti, persino con la fidanzata regolare Armande (altre volte vista come un automa alla Olimpia, ma ora, grazie alla giostra nel sangue, adorata alla pari di una dea dell’ebbrezza). Quanto può durare l’euforia del cinico? Questo è il problema. Poldonski se lo domanda più di una volta, ma l’euforia dura finché nella vista potenziata non si insinua una nuova rivelazione.
La verità come corruzione? L’occhio di Poldonski, palato dell’anima, comincia a sentire un sapore di guasto che in termini visuali si traduce nell’apparizione di cibi disgustosi, di chateaubriand che paiono già masticate, di vino che ha il colore del piscio e di individui nella folla, uno qua uno là, che paiono cadaveri ambulanti a tutti gli effetti. Quante volte l’avrà cantato il poeta? Il verme conquistatore… Ma guardate, avverte Spitz, siamo mica dalle parti di Edgar Poe. Se po’ no. L’omaggio al maestro, nella Parigi del 1945, è meno importante della sensibilità surreale o del tocco esistenziale che s’insinua nel romanzo. Esistenzialismo che era già anticipato nel Voyage muet del 1930 e nelle Dames de velours del ’33; mentre l’ispirazione surrealista è evidente fin dai suoi primi romanzi, La Croisière indécise del 1926 e Le Vent du monde del 1928. Nell’Occhio del purgatorio le contraddizioni della realtà messe in evidenza dall’umida compressa di Dagerlöff sembrerebbero “menues” (insignificanti) seppur fastidiosissime. Il peggio arriva solo gradualmente, ed è utile confrontare le prime delusioni visive del pittore – con i cibi dall’aspetto cattivo, il sapone da barba che non fa schiuma, i giornali nuovi già stazzonati, le lamette arrugginite appena uscite dal pacchetto – con alcuni passi tratti dai diari intimi di Jacques Spitz, custoditi nella Biblioteca nazionale di Francia e di cui diamo qui un’anteprima.
“L’epoca è ricca di piccole contrarietà: ti alzi al mattino e manca l’elettricità, ti lavi e il sapone non insapona; vorresti farti la barba ma le lamette sono rovinate; la cera delle scarpe non brilla; la carta igienica si strappa fra le dita; non c’è niente da spalmare sul pane nero, che puoi solo inzuppare nel liquido a malapena zuccherato che chiamano caffè; far rammendare i calzini è una lotta e così tenere in ordine la biancheria, che torna in un tale stato da chiedersi se sia stata lavata… Il sorriso è scomparso, minacce di morte sono affisse in due lingue su quasi tutti i muri… La città non è più che un immenso campo di concentramento.”
La descrizione si riferisce all’occupazione nazista di Parigi dal 1940 in poi, e al senso di alienazione della città (della realtà) che ne consegue: una capitale ridotta allo stato “di guscio senza lumaca”, disertata dai suoi governanti, abbandonata ai tiranni. La ripropone in questi giorni un volumetto inedito di Jacques Spitz, La situation culturelle en France pendant l’Occpation et depuis la Libération (Joseph K., 2010). Il documento fu commissionato, all’origine, da un amico di Spitz che lavorava per il governo provvisorio del generale De Gaulle, e costituisce un saggio più che interessante su quel travagliato periodo di storia. Inoltre, l’introduzione di Clément Pieyre ha il pregio di riprodurre alcuni brani tratti dai diari dello scrittore che sono, per noi, altrettanto rivelatori. Essi ci permettono di vedere come, in quello stesso anno 1945, Spitz riproponesse le proprie impressioni della città-cadavere nel romanzo L’oeil du Purgatoire, mettendole in bocca quasi parola per parola al pittore Poldonski. Ecco l’origine del male d’essere, della vista corrotta, della morte che cammina per le strade: ma, il tocco geniale è questo, pur nascendo da una situazione chiara e da un’esperienza storicizzata, il romanzo la trascende, sfociando in un’avventura sulla condizione dell’uomo nel tempo.
Oltre che di un viaggio nella causalità, come l’autore lo chiama più volte per bocca di Poldonski e soprattutto di Dagerlöff, L’occhio del purgatorio è un viaggio nell’essere. Il suo obbiettivo, infatti, è spostare la vista dell’uomo oltre il presente, che etimologicamente è il tempo dell’essere che avanza. Come spiega il filosofo Arturo Napoletano, “la parola presente deriva da un antico verbo latino, prae-esse, che aggiunge al verbo esse (essere) il significato del farsi avanti”. Nella lingua corrente tale sfumatura è andata perduta, ma ciò non toglie che il presente si identifichi con l’essere dell’uomo più di ogni altro tempo, sebbene la sua coscienza sia capace di astrarsene e ricordare il passato o ipotizzare il futuro. Se noi spingessimo la vista oltre il presente, che cosa vedremmo? Dagerlöff ritiene che si spalancherebbe la conoscenza del futuro, ma la sua cavia involontaria, Poldonski, si accorge ben presto che non è così. Ciò che appare all’occhio del purgatorio è il presente invecchiato, che non è tanto un tempo cronologico quanto ontologico. Se il presente è la dimensione dell’essere che avanza, il presente invecchiato non può che essere quello dell’essere che arretra, cioè dell’assenza. Ecco perché la città che appare agli occhi infetti di Poldonski è prima soltanto gualcita, impolverata e vagamente disgustosa, e poi, man mano che i giorni passano e l’ultra-vista si spinge in avanti, assume l’aspetto di un cadavere, anzi un palcoscenico su cui si balla la danza macabra. La morte è l’inquilina dell’assenza, il non-essere si profila dietro l’angolo del tempo.
Come mai? Non esiste qualcosa che chiamiamo visione del futuro, progetto, avvenire? Sicuramente, ma non è una dimensione della natura, ed è per questo che la scienza – sia pure una scienza trascendente le sue attuali possibilità – non potrà mostrarcela fino a che si ostinerà a restare attaccata ai suoi principi incatenanti. Bisogna, anche da parte degli scienziati, osare di più: “a costo del martirio”, come dirà Poldonski nelle pagine finali.
A immaginare e progettare il futuro è infatti la coscienza dell’uomo, la quale, lo abbiamo accennato, tende a sottrarsi sia al tempo presente che all’ingranaggio meccanico della causalità. Finché non usciremo da quest’ottica (ha capito, signor Dagerlöff?) il futuro non lo vedremo mai, solo un presente sciupato e morituro. E poiché la sua scienza pastorizzata non riesce a guardare oltre, a scoprire un orizzonte che includa il possibile oltre al causale, lei ci ha consegnato ai bacilli che mostrano, purtroppo, il degrado dell’essere e la sua inesorabile corruzione. Nient’altro.
“La scienza occidentale, costruita sulla prevedibilità, non fa alcun uso della categoria della possibilità, anche se essa comincia a far capolino nelle regioni di confine del sapere scientifico e vi getta più di un dubbio inquietante. Nella prassi, tuttavia, non possiamo concedere alle cose del mondo alcuna possibilità: esse devono corrispondere alle nostre aspettative e non dirigersi in direzioni possibili ma imprevedibili. La natura nella quale si muove la ragione umana è rigidamente sottoposta a leggi. Un sasso deve muoversi secondo la legge di gravità e non svolazzare a suo piacimento nello spazio. Infatti solo se obbedisce rigidamente alle leggi di natura, noi possiamo prevederne la traiettoria e lanciarne uno, in modo da farlo giungere là ove vogliamo. Tuttavia, nel contempo, noi [esseri coscienti] agiamo in base alla categoria della possibilità e ciò che neghiamo alla natura lo attribuiamo a noi stessi” (Arturo Napoletano).
L’occhio del purgatorio coglie questa contraddizione e non a caso si chiude con l’apparizione di bianche forme individuate che rappresentano il ritorno sulla scena della coscienza. E’ l’unica forza che possa permettere all’uomo, di volta in volta cavia o scienziato, di interpretare il reale e proiettarsi all’infinito, tornando per ciò stesso a occupare “il centro delle immensità” delle cosmologie classiche. Naturalmente, per chi se ne era sempre infischiato il ritorno della coscienza è un fatto traumatico, perché comporta un trasalimento su scala universale. Negli universi “addormentati” di cui abbonda la narrativa fantastica, la dissoluzione non è solo un problema di calore che si disperde o di morti che camminano al posto dei vivi quando l’essere arretra, ma è un problema morale. E’ lo stesso in Lovecraft, dove il cosmo dormiente sembra ridotto a una tomba e dove i tentativi della coscienza di riemergere possono scatenare il caos perché irrompono nei ritmi opachi del sonno.
Si può mettere un freno all’entropia? La fisica dice di no, eppure alcuni cosmologi hanno cominciato a pensare che l’estinzione di un universo possa condurre alla nascita di un altro, forse attraverso un nuovo big bang. Se dunque un mondo muore, non è detto che il ciclo non possa ripetersi con elementi riciclati e atomi rinnovati. C’è da scommettere che una qualche forma di coscienza – non quella umana, naturalmente, ma qualcosa che non possiamo nominare adesso – si formi di nuovo e rappresenti una scintilla in più fra le galassie popolate di stelle.
L’occhio del purgatorio è un viaggio al termine dell’essere che esplora la condizione abissale in cui brancoliamo come ciechi, credendoci visionari. Essa è dovuta a un fatale restringimento di orizzonti, ma le lacrime che sgorgano dal purgatorio, e che ci converrà conservare gelosamente, sono gocce di sapienza che riflettono un panorama più vasto: il regno della coscienza sottratta alle sue pastoie, e in cui la vita si dischiuderà con i colori del possibile.
Giuseppe Lippi
Posted in Antigravità
ottobre 10th, 2011 at 00:45
Accidenti sembra Ubik!!! E mi ha ricordato anche il mio film preferito di Roger Corman “L’uomo dagli occhi a raggi X”. Sarà infantile e pieno di difetti – ma era anche Corman e aveva due spiccioli per girare- ma l’interpretazione di Ray Milland – non era un campione ma assomigliava a James Stewart – riesce a rendere la condizione drammatica di un uomo condannato a vedere troppo.
“C’è una grande oscurità…Più lontana del tempo stesso… E oltre l’oscurità c’è una luce che cambia e scintilla… E nel centro dell’universo… Un occhio che ci vede tutti”
ottobre 19th, 2011 at 12:20
Grazie Lippi per averci fatto scoprire questo gioiellino.
Interessante anche il vostro articolo.
Non conosco la teoria dell’ entropia di cui parlate, ma secondo me
le forme bianche di cui parla il protagonista si potrebbero identificare in quella che gli antichi chiamavano Luce Astrale, Spirito Santo ecc… cioè un agente plastico di natura umana e divina, presente in tutti gli universi, dove rrimangono impressi tutti i nostri residui astrali e i nostri pensieri.
ottobre 20th, 2011 at 10:10
Se ne parla anche qui: http://www.goodthing.it/php/wordpress/?p=3188
più che altro in termini editoriali e proprio perchè si tratta di un racconto prezioso che dispiacerà non trovare più su un qualche scaffale, fisico e virtuale che sia.
ottobre 26th, 2011 at 11:57
Uno splendido contributo del Curatore, che contribuisce alla lettura di un romanzo formidabile.
ottobre 26th, 2011 at 13:25
Oddìo, rileggendomi noto un “contributo che contribuisce” davvero pessimo, stilisticamente. Ma il concetto era chiaro, almeno…
ottobre 29th, 2011 at 23:23
Beh, forse il mio film preferito di Corman in realtà è “The Intruder” con William Shatner che lincia i neri… Ma anche quello sulla famiglia di rapinatori credo che si intitolasse una cosa come “Evil Mother” con un giovane ma già esageratamente figo Robert De Niro pre Taxi Driver…
La conferenza di Wu Ming è molto bella… La prima volta che ho letto “Il continuum di Gernsback” non ne avevo intuito la portata, ma in realtà se la gioca alla pari con “L’astronauta morto” di Ballard. Il collegamento finale con l’onda mi sembra un po’ tirato per i capelli.