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Chi dice donna dice danno?

scritto il luglio 16th, 2010 da alphabetcity

Scusate il titolo un po’ provocatorio, ma a volte un  po’ di ironia non guasta! Come avrete capito i racconti di oggi hanno per protagonista due ragazze diciamo non esattamente della porta accanto!

Anita Book (che ci tiene a firmarsi con il suo pseudonimo e quindi eccola accontentata!) dà vita ad una ragazza pericolosa…

Mors mortis

Il cimitero era vuoto e silenzioso, quella notte. Lei si inginocchiò di fronte alla lapide ricoperta di edera e muschio e posò la sua rosa nera sull’erbetta umida. Chiuse gli occhi, respirando a pieni polmoni l’aria bagnata di pioggia scrosciante. Ogni volta un temporale, ogni volta un pianto del cielo. Cicatrici di vecchiaia sul viso giovane, ragnatele scure intorno agli occhi infossati, iridi di un buio luccicante e inguardabile. Gettò la testa all’indietro, uno scatto improvviso, e dalla sua bocca si levò un grido disperato. Lacrime scivolose, le mani strinsero ciuffi d’erba e sradicarono piccole zolle di terra sporcando le unghie perfette. L’acqua lavò tutto in un baleno, i segni di ciò che si era appena compiuto scomparirono. Lei chinò il capo, i capelli rosso fuoco a bruciarle le spalle ossute, fremiti nel cuore. Si alzò, a fatica, e camminò affondando i piedi nudi nel terreno. Il suo passo era incerto, barcollante, e la vista offuscata. Sbucarono velocemente, come erano solite fare, strappandole via pezzi di stoffa dal corpetto nero. Ali possenti, enormi, sbatacchianti. Alcune piume volteggiarono in aria, danzarono insieme alla pioggia. Lei resistette al dolore e continuò a camminare. Si inoltrò nel bosco, si appoggiò ai tronchi scrostati degli alberi per riprendere fiato, inciampò più volte ferendosi i palmi delle mani. Non riusciva ad abituarsi alla trasformazione. La testa le girò vorticosamente fino a privarla di tutte le energie. Crollò al suolo, inghiottita dalle ombre di chi aveva generato il mostro che abitava in lei. Brava, mia dolce bambina, le risuonò una voce nelle orecchie.

*

– Aiutatemi, presto! Accorsero in quattro, dopo un paio di ore. Il temporale imperversava ancora, violenza inaudita della natura. La trovarono riversa su un tappeto di foglie marroni, il capo molle piegato di lato, la pelle imbrattata di fango e pioggia. Vincent, il più forte, la sollevò dolcemente e insieme ai suoi compagni la sistemò su di una barella arrangiata. La portarono nel capanno nascosto tra gli alberi, avamposto segreto per combattere le imboscate nemiche, e la adagiarono su di un letto decente. Tutti la osservavano con circospezione e ammirazione al contempo. Era bella, su questo non c’era dubbio, tuttavia la grazia del suo viso contrastava con l’avvenenza e la dominanza del suo corpo. Forme sensuali, muscolatura perfetta, un’aura di potenza e prestanza ad aleggiare su di lei. Cosa le era capitato? E poi quelle ferite sulla schiena, raccapriccianti. Tagli netti, slabbrati ai bordi, dalle scapole in giù, dove ancora sgorgava del sangue denso e vermiglio. Una donna, la saggia guaritrice del villaggio, cercò di tamponargliele come meglio poteva e intanto recitava parole antiche, sconosciute. D’un tratto, la ragazza spalancò gli occhi e atterrita dalle sagome che la circondavano si mise a urlare.

Pianse lacrime nere, calde, che fecero sfrigolare la pelle, alla vista delle quali i cinque umani inorridirono.

– Riportatemi indietro! – gridava come un’ossessa. – Riportatemi indietro!

Ma nessuno si muoveva e la voce che solitamente le rimbombava nella testa tornò a farle visita. Ecco il tuo prossimo sposo, mia bambina. Il suo nome è Vincent e tu lo attirerai a te. Non voglio, avrebbe voluto sbraitarle contro. Mi rifiuto di obbedire al destino. La voce le lesse nel pensiero. Ricordati chi sei, Mortisia, e per cosa sei votata. L’amore non appartiene a chi toglie il respiro della vita. Sottomessa, così, ancora una volta alla triste volontà del fato, ridiede inizio al suo mortale gioco.

La ragazza di Irma appartiene ad una dimensione onirica e leggera… ma basta poco a trasformare un sogno in un incubo…

Sogno in catene

Un soffio di vento le accarezzò il viso.

Era giunto il momento, come ogni sera, quando apriva lentamente gli inconfondibili occhi: uno blu e uno verde e congiungeva le mani alzandole lentamente verso il viso. Lo stesso vento leggero e caldo la investiva. I suoi capelli guizzavano in aria come lingue di fuoco e poi all’improvviso ricadevano morbidi sulle spalle, confusi.

Il lungo vestito che portava si gonfiava in mille pieghe che girarono a ruota. Poi si fermavano.

A mezz’aria compariva il Lyfren, il pennello magico che con l’oro del suo manico, mandava riflessi tutt’intorno. 

Lo afferrava e lo stringeva tra le mani. Una musica lenta, leggera e melodiosa prendeva a suonare investendola con le sue note. Le sue mani guidavano il pennello che senza intingersi in alcun colore dipingeva l’aria. Il pennello le ondeggiava in mano e le sue setole morbide disegnavano scie di colori intorno a lei.

Volteggiava luminosa, a passo con la musica, dirigendo in quella danza anche il suo pennello.

Immagini e scene riempivano il vuoto intorno a lei. Scene gioiose, allegre, ma anche macabre e orrende ognuna con un destinatario preciso.

E così lei creava i sogni.

I suoi dipinti confluivano nelle menti delle persone ignare di tutto che si lasciavano cullare dall’onda dolce e rassicurante del sonno.

Tutto come accadeva sempre, ogni sera, all’imbrunire. Era un’azione solita. Ma quel giorno no. Quella sera nessuno avrebbe sognato più nulla, o almeno cose dolci e belle. Perché lei non sarebbe stata lì ad impugnare il pennello e a danzare.

Quella sera lei purtroppo era confinata lontano.

Con il busto piegato in avanti piangeva sommessamente con il capo chino; i capelli che le ricadevano in grossi grovigli su entrambe le guance. Le braccia tese all’indietro e bloccate al muro da grosse catene, erano ricoperte da una patina argentata, e il suo bellissimo abito di seta a pezzi.

A terra in una piccola pozzanghera, formatasi dall’acqua che penetrava dalla grata sulla sua testa, c’era ciò che restava del suo pennello, un solo crine, quasi invisibile.

Pioveva sul suo capo, si sentiva fradicia, ma per quanto cercasse di invocare aiuto, nessuno poteva sentirla, rinchiusa com’era tra quei muri grigi e spenti che si chiudevano intorno a lei come braccia nel tentativo di afferrarla e di impedirle di fuggire.

Ma lei sapeva che in qualche modo ce l’avrebbe fatta.

Strinse gli occhi e ricacciò le lacrime. Presto sarebbe tutto finito. Doveva solo stringere i denti e resistere, trovando la forza di farlo in un pensiero che l’avrebbe rincuorata. Presto gli occhi, uno verde e l’altro verde, di colui che era destinato a prendere il suo posto, si sarebbero aperti alla verità e avrebbe affrontato la pericolosa missione, cercando di rimediare lì dove lei aveva fallito: distruggere Incubo.

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