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Archivio articoli appartenenti alla categoria: ‘I vostri racconti’

L’ultimo…

scritto il luglio 23rd, 2010 da alphabetcity

Come potete vedere, o meglio legger, anche Maria aveva scritto un racconto troppo lungo!

Vi lascio alle sue parole ma prima vi dò appuntamento a lunedì con L’ANNUNCIO DEL NUOVO CONTEST!!!

Non mancate… ci conto…

 

 Bianco. Tutto bianco intorno a me. Ero circondata dal nulla. Poi mi accorsi di qualcosa di fianco a me, una figura sfocata. Ci misi un po’ a metterla a fuoco. Era una ragazza. Avrà avuto al massimo 15 anni, il viso ancora da bambina era troppo pallido, e gli occhi… occhi che guardavano un tutto e un niente che non c’era. Voci che provenivano da quella ragazza mi inondavano la testa, erano strazianti: pianti, grida, lamenti… la ragazza sei tu! Disse una di quelle voci. Poi tutto si fermò e si fece buio, un pozzo scuro senza fine; l’unica figura abbagliante era davanti a me.

<<è il tuo destino.>> disse la figura, portava una collana di lapislazzuli al collo, ricami che non conoscevo  erano impressi su quel manufatto. La guardai un istante.

<<chi siete?>>chiesi con un filo di voce.

<<tu sei la prescelta, è il tuo destino>> questa volta mi prese la mano ci mise un oggetto, anch’esso sbiadito, come offuscato. Sembrava qualcosa di blu, era intenso, bruciava a contatto con la mia pelle.

<<chi siete?>> gridai ritraendo la mano. Le tenebre iniziavano ad avere la meglio. L’oggetto era una collana con una pietra, sopra c’era inciso il simbolo di una runa antica. La ragazza continuava a guardarmi, aveva dei lineamenti bellissimi quasi come un angelo; ma quello sguardo, quel pallore la rendevano troppo triste, infelice per quel che gli era successo, gli occhi, cosi giovani erano bloccati sull’oggetto che adesso, non so come, si era posato sul mio collo.

<<sono…>>

Mi svegliai urlando fino a farmi male alla gola. Mi coprii gli occhi e con le mani sentii di averli bagnati. Mi guardai attorno, ero in una radura splendida, tutta tappezzata di fiori e contornata da cespugli. Sentii un rumore, mi accorsi che non ero sola.

<<chi c’è?>> gridai. Silenzio.

<<esci fuori!>> dissi avanzando di qualche passo. Silenzio.

Presi il pugnale che avevo alla cintura, e senza badarci tanto saltai addosso a un ragazzo. Era lui che faceva rumore. Fu un movimento rapido, gli saltai addosso e gli misi il pugnale alla gola. Era anche lui giovane, poco più grande di me. Il viso era coperto da capelli castani un po’ lunghetti e ricci, ma la cosa che mi stupì erano le orecchie: avevano una strana forma appuntita.

 << chi se…>> la frase mi morì in gola. La collana, quella del sogno, era lì, che mi pendeva dal collo. E il simbolo: spiccava sul blu intenso della pietra. Il pugnale mi cadde dalle mani. Non potevo crederci, non volevo crederci. In fondo era solo un sogno. Mi appoggia ad un albero e iniziai a piangere. Non era possibile, io non  avevo mai vista quella collana se non in sogno.

Il ragazzo si avvicinò e si sedette vicino a me e mi abbracciò lasciando che gli macchiassi tutta la casacca. Era molto dolce, soprattutto per il fatto che, dopo avergli puntato alla gola un pugnale ed averlo quasi ucciso non fosse scappato ma, fosse rimasto a consolarmi pur non sapendo chi fossi.

<<scusa, non volevo spaventarti>> disse. <<io sono Fares.>> aggiunse. Non so perché ero appoggiata a lui, ma qualcosa dentro di me mi diceva che potevo fidarmi. Accese il fuoco, rimanemmo zitti per un po’, poi senza che mi chiedesse niente gli raccontai del sogno, della collana e del simbolo. Lui ascoltava senza dire niente, lasciando che mi sfogassi. Quando finii mi sentii più leggera. <<scusa, non so perché ne sto parlando, comunque cosa ci facevi nel bosco?>>

<< sono un cavaliere, o meglio. Stavo andando a nord per un pattugliamento approfondito quando ti ho sentita gridare e allora…>> arrossii. Avevo gridato così tanto?

<<pattugliamento?>> chiesi. Ma adesso che ci pensavo non so dove mi trovavo e cosa ci facessi li.

<<si, il re ha chiesto a cinque cavalieri di drago di pattugliare l’area dall’alto, vedi è molto malato e non vuole correre rischi di attacchi dalle altre terre>> disse. <<comunque non mi hai detto come ti chiami>>

<<Re? Comunque io non ho un nome>> risposi. <<mio padre quando seppe che mia madre era incinta la lasciò e lei morì durante il parto>>

<<mi dispiace. Comunque se vuoi un nome lo possiamo rimediare>> disse tralasciando la domanda riguardo al re.

<<non so>> ero un po’ confusa. Da quando ero stata abbandonata tutti mi chiamavano orfana, e ora un tizio sconosciuto voleva aiutarmi a ricostruirmi un’identità.

<<Maria?>> chiesi, in fondo era un nome abbastanza usato.

<<Ma che nome è? >> disse. <<che te ne pare di Zahira?>> chiese illuminato.

<<non so, direi di si>> dissi un po’ confusa, il mio nome era Maria. Stetti al gioco e decisi che in fin dei conti mi piaceva come nome, aveva un che di strano ma mi piaceva. Soprattutto anche perché mi aveva aiutato lui a trovarlo, era davvero carino.

<< grazie>> risposi rossa di vergogna fino alla radice dei capelli. << senti magari quando riparti non è che posso venire con te? >>

<< certo>> rispose sorridendo. Lo guardai e un sorriso spontaneo mi sfuggì dalle labbra.

Qualcosa si mosse dentro di me, come se il cuore iniziasse a riscaldarsi dopo anni e anni di ghiaccio assoluto. Lo guardai meglio, e per la prima volta notai che aveva un’arma. Una spada. Alla fine dell’elsa c’era una mezzaluna che proseguiva e andava a formare la lama che era incisa con simboli strani. <<posso vederla?>> chiesi senza pensarci.

Mi guardò perplesso. <<che cosa?>> chiese.

<< la spada>> risposi. Aveva qualcosa di familiare quella lama, o meglio i simboli su di essa.

Me la porse. La presi in mano e iniziai a maneggiarla. <<sai usarla vedo>> affermò.

<< non tanto>> dissi ammirando i simboli sulla lama. In effetti era la prima volta che ne impugnavo una.

<< se ti va, intanto che andiamo a nord ti insegno a usarla>>

<< volentieri>> dissi con un sorriso a trentadue denti. Ho sempre amato le spade, fin da quando ero bambina.

La notte passò velocemente, non riuscii a dormire molto. Ripensavo alla spada, ai simboli sulla lama. Li avevo già visti da qualche parte., ne ero sicura. Presi a giocherellare con la collana senza pensarci, la guardai di sfuggita ma mi bloccai di colpo… il simbolo che era sulla lama era lo stesso della collana!

<<Fares, Chi ti ha dato la spada?>> gridai.

<<l’esercito elfo, io ne faccio parte. Sono una guardia reale. Sai dove siamo?>> chiese dubbioso. Feci di no con la testa, l’unica cosa che sapevo era che quella collana aveva qualcosa a che fare con la spada di Fares.

<< Siamo nelle terre Elfiche. Re Elelith è il sovrano>> disse.

<< e il simbolo della spada cosa rappresenta?>> chiesi, dovevo saperlo. Lui mi guardo perplesso un attimo, sospettava qualcosa forse, ma cosa poteva sospettare se io non sapevo nulla.

<< la magia del nostro popolo –quella di un tempo, la magia antica. Adesso è del tutto sparita- ed è anche il simbolo reale>> affermò.

<< è lo stesso simbolo della mia collana…>> dissi, tirandomi via la collana e porgendogliela. Rimase interdetto alla vista di quel medaglione, occhi e bocca spalancati.

<< che cos’hai? Lo hai già visto?>> chiesi preoccupata dalla sua reazione.

La guardo ancora qualche secondo che pareva eterno ma quando infine decise di rispondermi rimasi di stucco.

<< era il ciondolo della regina>> disse guardandomi sbalordito.

<< è impossibile, ti ho appena detto come l’ho avuto>> dissi ed era veramente impossibile, io non centravo niente con tutta questa storia della magia e della famiglia reale. Lo guardai perplessa, aveva ancora in mano la collana e ricambiava il mio sguardo con un misto di preoccupazione e stupore quando qualcosa catturò la mia attenzione. Era immobile, fermo come una statua. All’inizio pensavo che mi prendesse in giro, poi lo guardai meglio. Non respirava!

<< Fares? Fares?>> continuavo a scuoterlo e a ripetere preoccupata. Ma notai una cosa guardando in alto. Un uccellino era fermo a mezz’aria; immobile con le ali spalancate che volava nella radura.

<< che diamine sta succedendo qui?>> sussurrai in preda alle lacrime.  Tutto era immobile, fermo. Come se il tempo si fosse fermato e io fossi l’unica cosa che potesse ancora muoversi. Le lacrime ormai erano scese e tutto era iniziato a girare, tutti i colori si legavano tra di loro quando alla fine spuntò un quadrante nero.

<< che cosa…>> non finii la frase che ricordai tutto. Tolsi il baschetto e mi ritrovai in una stanza con Salvatore che mi guardava preoccupato. Il videogame aveva qualcosa che non andava. Cavolo però se era reale giocarci. Sembrava davvero che fossi in quel mondo irreale tra elfi spade e… insomma in quel posto.

<< stai bene?>> chiese aiutandomi ad alzarmi. Lo guardai qualche secondo e sorrisi. << sei un genio lo sai? È stupendo!>>  si tranquillizzò istantaneamente.

<< hai finito il livello Mery, domani se vuoi continuiamo>> disse mettendo a posto il caschetto.

<< ovvio che continuiamo>> dissi e tutti e due ci dirigemmo verso la porta. << aspetta ho dimenticato la borsa>> dissi fermandomi. << sempre la solita eh, inizio ad andare in cucina>> disse e iniziò a scendere le scale. Andai a riprendermi la borsa ma qualcosa attirò la mia attenzione: sulla borsa c’era una busta. La presi: nessuno la aveva mandata. Aprendola non trovai nessuna lettera ma una collana. Blu con sopra incisa una runa. Salvatore doveva avermi giocato qualche brutto scherzo, ma in fin dei conti speravo che fosse davvero qualcosa di magico.

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Fuori dal contest ma dentro il mondo della fantasia…

scritto il luglio 23rd, 2010 da alphabetcity

Troppo lungo per partecipare al nostro contest ma non per essere pubblicato! Ecco il racconto di Rebecca, che merita comunque di essere letto.

Il Natale di Melissa


Avete mai sentito parlare dei topolini ballerini? No, non sono criceti in tutù come qualcuno di voi starà pensando! Magari li avrete visti in uno dei vostri libri di scuola o in qualche documentario…

Sono dei piccoli topini, più piccoli di quelli di campagna, possono essere bianchi, o neri, o bianchi e neri come dei dalmata e vengono chiamati ballerini perché passano il loro tempo, oltre che a mangiare, a girare in tondo, come delle trottole! I bambini adorano i topolini ballerini e la storia che vi voglio raccontare è proprio quella di uno di questi bambini…

Erano i primi giorni di dicembre di qualche anno fa e la piccola Melissa, che aveva sei anni, non vedeva l’ora che cominciassero le vacanze di Natale. Era il suo primo anno di scuola e le piaceva andarci, anche se, ancor di più, le piacevano le vacanze. Durante la lezione pensava a quando avrebbe fatto l’albero di Natale e il Presepio con la mamma, a cosa avrebbe chiesto a Babbo Natale… Melissa non aveva né fratelli né sorelle, non le mancavano però i cugini.

Tra questi, quella che preferiva era la sua cugina di dieci anni, Veronica. Ogni volta che poteva, si faceva accompagnare dal papà a casa di Veronica e lì passavano interi pomeriggi a giocare insieme. Da qualche mese però le sue visite alla cugina erano diventate più frequenti a causa di alcuni nuovi “ospiti”…

Al papà di Veronica, infatti, avevano regalato due topolini ballerini, un maschio e una femmina, in una gabbietta verde a cui era stata aggiunta una reticella con le maglie strette, affinché i topolini, che erano grandi quanto un pollice, non potessero scappare.

Melissa se ne innamorò nel primo istante in cui li vide: non aveva mai visto dei topolini così piccoli e cosi simpatici! Le piaceva stare a guardarli mentre giravano, mentre mangiavano i semi di girasole con le loro zampine, che sembravano mani in miniatura, e chiedeva a Veronica di toglierli dalla gabbia, per poterli tenere in mano. Era affascinata da quei morbidi animaletti così piccoli e così movimentati e, da quando la topolina aveva avuto due topolini, non faceva altro che chiedere alla mamma e al papà di poterne tenere uno.  I genitori le avevano ricordato che i topolini ballerini avevano bisogno di tante attenzioni e, dato che Melissa la mattina andava a scuola, avrebbero dovuto pensare loro a far tutto. Anche questo però non era possibile perché al papà gli animali così piccoli non piacevano e inoltre, lavorando fino a tardi, quando tornava a casa, aveva voglia solo di mangiare e andare a dormire. Anche la mamma lavorava, e poiché faceva i turni, spesso la mattina non era a casa. Questo però Melissa non lo capiva, così insisteva, esasperando sempre più i genitori.

Mancavano ormai pochi giorni a Natale. Quell’anno Melissa desiderava un’unica cosa e l’aveva scritto in grande, nella sua letterina.

“Caro Babbo Natale, quest’anno voglio un solo regalo:

un topolino ballerino. Un bacino, Melissa”

Babbo Natale leggeva tutte le letterine in anticipo e, quando gli arrivò quella di Melissa, non ne fu molto felice. Lui osservava tutti i bambini del mondo per capire se facevano da bravi o meno e si era accorto che, a causa dei topolini ballerini, Melissa era diventata capricciosa e testarda. I genitori l’avevano avvertita, ma lei non ascoltava pin nessuno.

Il 25 dicembre arrivò e Melissa, tutta eccitata, si alzò presto e andò a cercare i suoi regali sotto l’albero. Con delusione però, trovò solo una gabbietta vuota con dentro un foglietto, vi infilò la sua manina, tirò fuori il foglio, lo svolse e lesse:

Uno, due, oplà

La magia è questa qua!

Passarono alcuni secondi durante i quali Melissa si chiese cosa volessero dire quelle parole, poi sentì un leggero prurito sotto il nasino, si toccò e sentì di avere un paio di lunghi e sottili baffi!

Spaventata provò a chiamare la mamma, ma dalla bocca le usci solamente un debole squit e, all’improvviso, si rese conto di essere in gabbia! Non ci volle molto perchè Melissa capisse di essere diventata un topolino ballerino. Avrebbe voluto piangere e chiamare mamma e papa, ma non riusciva a stare ferma: aveva cominciato a girare, girare e non sapeva come fare per smettere. Dopo un po’ arrivarono i genitori che si arrabbiarono molto vedendo quell’animaletto sotto l’albero. Pensarono subito che fosse opera di Veronica, cosi le telefonarono, ma naturalmente lei non ne sapeva niente. Pensarono che Melissa fosse ancora addormentata e decisero di non svegliarla. Videro che il topolino non aveva niente da mangiare e gli misero qualche pezzo di biscotto. Melissa-topolina, poiché era affamata, divorò il biscotto,ma era molto triste e sperava che tutto tornasse come prima. Provò ad arrampicarsi sulle sbarre della gabbietta, ma, una volta in cima, si accorse che non c’era via d’uscita e sentiì la mamma che diceva al papà che sarebbe stato meglio portare il topolino, prima che Melissa si fosse svegliata, da Veronica, che lo avrebbe potuto mettere insieme agli altri che già possedeva. Per quanto amasse i topolini ballerini, Melissa non aveva la minima voglia di avere con loro incontri ravvicinati di questo tipo. Cosa sarebbe successo poi, se gli altri topolini si fossero accorti che lei era diversa da loro? E come avrebbe potuto mangiare semi di girasole per tutta la vita? Si vide cosi portare via da casa sua: il papà la mise in macchina e dopo non molto entrarono a casa della cugina. Melissa aveva tanta paura e, anche se le lacrime non le scendevano, stava piangendo. Veronica disse che per lei non era un problema ospitare un altro topolino, aprì la sua gabbietta verde e prese in mano Melissa-topolina che chiuse gli occhi e cominciò a dimenarsi perché non voleva essere messa insieme agli altri! Riuscì a liberarsi dalle mani di Veronica ma cominciò a precipitare verso il basso, sempre più giù e già pensava che, una volta toccato il pavimento, si sarebbe spiaccicata. Improvvisamente si accorse che stava accadendo qualcosa al suo corpicino, ur1ò e, sempre con gli occhi chiusi, senti di essere finita su qualcosa di duro.

Aprì gli occhi e vide che si trovava di nuovo nella sua cameretta! Era caduta dal letto ed era di nuovo una bambina: era stato solo un sogno! Si alzò per tornare a letto, quando si accorse di avere delle briciole sul pigiamino… Sembravano quelle del biscotto che la mamma le aveva dato quando era nella gabbia… Forse si era davvero trasformata in un topolino…o forse… Melissa non aveva voglia di pensarci, era solo felice di essere ancora, o di nuovo, una bambina. Sospirò, s’infilò bene sotto le coperte e, poiché era ancora notte fonda, si riaddormentò. La mattina seguente si alzò, aprì i suoi regali e passò un bellissimo Natale con la sua famiglia da cui era tanto amata.

Oggi Melissa ha qualche anno in più, ha smesso di fare la capricciosa e va ogni giorno in palestra per imparare a fare la ballerina. Forse fu solo un brutto sogno o forse fu una lezione che volle darle Babbo Natale, fatto sta che Melissa ricorda ancora di come girava, quando era un topolino. Ora può continuare a farlo, ma da bambina.

Bello vero? Sarebbe stato un peccato non condividerlo con voi…

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Gli ultimi due racconti!

scritto il luglio 19th, 2010 da alphabetcity

Dadaaan! Questi sono gli ultimi due racconti!!

Ada ha scelto di regalarci una descrizione breve, vaga, ma non per questo meno fantasy…

Il drago e la bambina

L’erba danzava. Il vento,più forte che mai, scuoteva le chiome degli alberi  che si piegavano come sottomessi; e le case , di tutti i regni, sembravano restare in piedi per magia e forse era così. Perché in quel momento le persone che abitavano le povere piccole case che resistevano al vento erano capaci di credere a tutto.

Un tuono, un boato tremendo, e un albero secolare, a nord del Alba Centrale, cadde provocando una scossa di terremoto che fece volare via non pochi tetti. E in quel buio, nella tempesta, una figuretta nera si muoveva adagio, titubante, ma sembrava totalmente immune alla furia scatenata dalla tempesta.

Un altro tuono, un lampo, e un albero bruciò cadendo addosso alla figura nera ma all’ultimo momento un’enorme drago argento scese in picchiata e piombò davanti alla figura nera, le sue fauci roventi si spalancarono e ne uscì una fiammata rossa, perfino più rossa del fuoco, che circondò l’albero incenerendolo.

La figura nera mosse un passo e guardò le ceneri dell’albero cadere proprio ad un palmo dal suo naso. Sollevò il viso e rivolse uno sguardo di gratitudine verso il drago.  Poi … la pioggia. Pioggia è dir poco,un diluvio forse sarebbe più adatto ma…no nemmeno un diluvio, di più. La pioggia colse impreparata la figura nera che si mise a correre in direzione del Tramonto Orientale in compagnia del drago; cosa che fece sussultare anche le volpi nelle loro tane. Perché  nessuno poteva considerare un drago, nessuno. I draghi erano il diavolo e chi osava provare anche solo a  guardarne uno veniva punito con la morte.

Sì, la figura osava e non sembrava rendersi conto di cosa stava facendo. Infatti non si accorse della piccola faccia  appuntita che osservava la scena con gli occhi sbarrati,una faccia di ragazza sui sedici anni,che urlò mettendosi le mani sulla bocca e sparì, nel buio della casa.

Con Laura, invece, torniamo nel presente, ma sarà il passato a fare capolino: sorprendente!!!

Yin e Yang

-Nadia!! Vieni, guarda cosa ho trovato!

Nadia corse nell’altra stanza dall’amica che l’aveva chiamata e chinatasi sullo scatolone che Elisa stava aprendo vide quello che aveva trovato all’interno: un grosso libro viola con disegnata una stella a cinque punte dorata.

Nadia prese il libro in mano e lo aprì per vedere cosa c’era scritto

–A tua mamma piaceva la magia? Questo libro è pieno di formule magiche.

Elisa si mise vicino all’amica guardando il libro con lei

-In effetti ha sempre avuto una passione strana per i libri fantasy-

poi si accorse di due collane che giacevano in fondo allo scatolone, lo Yin e lo Yang, li prese in mano studiandoli attentamente

–Credo che queste a mia mamma non servano, le possiamo prendere noi, quale vuoi? Yin o Yang?

Nadia prese lo Yin e lo indossò seguita da Elisa che fece la stessa cosa con lo Yang, appena le due collane si poggiarono sul petto delle ragazze il libro si illuminò sollevandosi a mezz’aria; le pagine iniziarono a girare e quando si fermarono una voce profonda riempì la stanza.

-Quando il ciondoli si troveranno per la seconda volta indosso alle due streghe la profezia si compirà e i tre mondi una volta separati si riuniranno secondo le leggi delle prescelte.-

il libro si richiuse e cadde con un tonfo sul pavimento. Nadia ed Elisa, che si erano rifugiate dall’altra parte della stanza tenendosi abbracciate per la paura, si diressero cautamente verso il libro e dopo averlo preso lo aprirono nella prima pagina dove erano raffigurati lo Yin e lo Yang.

Accanto al simbolo c’era una frase che le due ragazze lessero all’unisono, non volevano farlo, sapevano che avrebbe portato guai, ma qualcosa le spingeva a farlo

–Per il potere donatoci dalle nostre antenate, noi streghe del buio e della luce invochiamo i nostri servitori dai due mondi che ci appartengono!

Sotto di loro si creò un cerchio con il simbolo dello Yin e dello Yang e subito davanti a loro comparvero due esseri incappucciati.

L’essere davanti a Elisa si tolse il cappuccio rivelando il volto di un ragazzo con gli occhi azzurri e i capelli biondi, poi si inginocchiò

–Strega della luce dai capelli corvini mi chiamo Ley, sono qui per servirla.

Dopo di lui anche l’altro si tolse il cappuccio scoprendo un volto uguale all’altro ragazzo, ma con i capelli castano scuro e gli occhi neri, anche lui si inginocchiò

–Padrona delle tenebre con gli occhi smeraldo io, Yu, sono pronto per sottostare ai suoi ordini.

Elisa e Nadia si scambiarono uno sguardo stupito

–Cosa significa tutto questo?!

In quel momento sentirono la serratura della porta scattare e videro la madre di Elisa entrare con le borse della spesa in mano; appena lei vide i due ragazzi i sacchetti le caddero di mano riversando il loro contenuto sul pavimento

–Ley! Yu! Cosa ci fate voi due qui?!

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Il primo racconto della giornata…

scritto il luglio 19th, 2010 da alphabetcity

Siamo agli ultimisimi racconti popolo dei draghi! Mercoledì si saprà quali racconti faranno parte della fortunata cinquina all’interno della quale verrà scelto/a colui o colei che incontrerà Licia Troisi!

Emozionati eh?!?

Ma non facciamoci troppo distrarre dall’ansia da risultato e godiamoci il primo racconto della giornata. Francesca ci racconta cosa può passare nella mente di una maga: gli infinti attimi prima di una battaglia…

L’attesa dell’alba

Il respiro era affannato. Le ossa davano i primi segni di cedimento e Jamie si voltò verso l’ amica al suo fianco. Quei tratti spigolosi che ormai conosceva bene erano tesi, ma non c’era ansia nella presa della sua ascia.  Anche lei aveva lo sguardo fisso davanti a sé. Le sue ali bianche ora erano chiazzate di rosso, il sangue delle ombre che ora sporcava anche il suo viso. Le ombre erano immobili davanti a loro, in silenziosa attesa. Aspettavano la loro prossima mossa. E loro erano ad un soffio dalla morte. Un attimo di sospensione prima del colpo che li avrebbe uccisi, tutti e tre. Voltò il viso dall’ altro lato. Accanto a lei c’era Gyn, il suo compagno d’armi, il suo drago. Fissò lo sguardo nel suo e Jamie poté vederne la profondità. Non c’era paura in quegli occhi color smeraldo, il battito del suo cuore era regolare sotto le squame grigie, le sue zampe potenti pronte all’ attacco. Erano rimasti solo loro. Tre di un esercito immenso. Tre contro tutte le ombre. E lei, semplice maga, che aveva sempre pensato che esse non avessero consistenza, si era invece ritrovata solo pochi mesi prima, a fare i conti con la dura verità. Avevano corpo, forte e imponente, avevano menti, scaltre, meschine, avevano potenza, in magia e combattimento. Non potevano essere sconfitte poiché ogni ferita che avrebbe ucciso un uomo, per loro era un semplice graffio, come un’ impronta sulla sabbia che viene portata via dalle onde. Chiuse per un attimo gli occhi. Ed avevano sangue, lo stesso che ora macchiava le loro lame, lo stesso che lei, anche se maga alle prime armi, avrebbe usato a loro svantaggio. Potevano uscirne vincitori, anche se di sicuro non vivi. Dovevano trovare il modo per eliminarle tutte e rispedirle nell’oblio da cui erano uscite. Mentre cercava di tenere ferma la presa sull’ elsa della sua arma, molti ricordi le invasero la mente, vincendo la barriera della memoria. Ricordò la sua infanzia piena di pressioni sul suo futuro. Diventare una manipolatrice della magia era stato da sempre il suo destino. Ricordò la prima volta che aveva visto il suo maestro e aveva pensato che fosse un uomo troppo giovane e bello per sapere tante cose. Ricordò la prima volta che aveva fatto un incantesimo; quando si era battuta con quell’ angelo venuto da lontano in cerca di una profezia sulla sua specie e quando per la prima volta i suoi occhi avevano incontrato quelli di Gyn, in una scuderia al confine, pochi giorni dopo aver ricevuto la lettera del rapimento di suo fratello da parte delle ombre. Ricordò la rabbia verso quelle creature e le notti insonni mentre pensava alla battaglia imminente.  Jamie guardò la sua spada. Pesava e non risplendeva più della sua solita luce, la luce della speranza. Ma quando questa svanisce, ecco che compare la volontà. E loro ne avevano molta.

-Pronti alla fine?- sussurrò ai due amici

-Pronti ad un nuovo inizio- la voce di Erica era ferma e sicura.

Jamie alzò per un secondo lo sguardo al cielo che il tramonto aveva ornato di molteplici colori. La luce fioca le danzò per un attimo sul viso, prima di passare ai migliaia di corpi che li circondavano. Ancora pochi minuti e sarebbe scesa la notte. E poi sarebbe giunta l’ alba, desiderata e forse inattesa.  Era giunto il tempo di ricambiare l’amore delle tante persone che ancora attendevano, in una terra in principio splendida ed ormai devastata da armi e paura. Ma lei non avrebbe più avuto paura. 

Gyn sbuffò. Era ora di riprendere la loro lotta e di riprendersi la loro libertà.

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Chi dice donna dice danno?

scritto il luglio 16th, 2010 da alphabetcity

Scusate il titolo un po’ provocatorio, ma a volte un  po’ di ironia non guasta! Come avrete capito i racconti di oggi hanno per protagonista due ragazze diciamo non esattamente della porta accanto!

Anita Book (che ci tiene a firmarsi con il suo pseudonimo e quindi eccola accontentata!) dà vita ad una ragazza pericolosa…

Mors mortis

Il cimitero era vuoto e silenzioso, quella notte. Lei si inginocchiò di fronte alla lapide ricoperta di edera e muschio e posò la sua rosa nera sull’erbetta umida. Chiuse gli occhi, respirando a pieni polmoni l’aria bagnata di pioggia scrosciante. Ogni volta un temporale, ogni volta un pianto del cielo. Cicatrici di vecchiaia sul viso giovane, ragnatele scure intorno agli occhi infossati, iridi di un buio luccicante e inguardabile. Gettò la testa all’indietro, uno scatto improvviso, e dalla sua bocca si levò un grido disperato. Lacrime scivolose, le mani strinsero ciuffi d’erba e sradicarono piccole zolle di terra sporcando le unghie perfette. L’acqua lavò tutto in un baleno, i segni di ciò che si era appena compiuto scomparirono. Lei chinò il capo, i capelli rosso fuoco a bruciarle le spalle ossute, fremiti nel cuore. Si alzò, a fatica, e camminò affondando i piedi nudi nel terreno. Il suo passo era incerto, barcollante, e la vista offuscata. Sbucarono velocemente, come erano solite fare, strappandole via pezzi di stoffa dal corpetto nero. Ali possenti, enormi, sbatacchianti. Alcune piume volteggiarono in aria, danzarono insieme alla pioggia. Lei resistette al dolore e continuò a camminare. Si inoltrò nel bosco, si appoggiò ai tronchi scrostati degli alberi per riprendere fiato, inciampò più volte ferendosi i palmi delle mani. Non riusciva ad abituarsi alla trasformazione. La testa le girò vorticosamente fino a privarla di tutte le energie. Crollò al suolo, inghiottita dalle ombre di chi aveva generato il mostro che abitava in lei. Brava, mia dolce bambina, le risuonò una voce nelle orecchie.

*

– Aiutatemi, presto! Accorsero in quattro, dopo un paio di ore. Il temporale imperversava ancora, violenza inaudita della natura. La trovarono riversa su un tappeto di foglie marroni, il capo molle piegato di lato, la pelle imbrattata di fango e pioggia. Vincent, il più forte, la sollevò dolcemente e insieme ai suoi compagni la sistemò su di una barella arrangiata. La portarono nel capanno nascosto tra gli alberi, avamposto segreto per combattere le imboscate nemiche, e la adagiarono su di un letto decente. Tutti la osservavano con circospezione e ammirazione al contempo. Era bella, su questo non c’era dubbio, tuttavia la grazia del suo viso contrastava con l’avvenenza e la dominanza del suo corpo. Forme sensuali, muscolatura perfetta, un’aura di potenza e prestanza ad aleggiare su di lei. Cosa le era capitato? E poi quelle ferite sulla schiena, raccapriccianti. Tagli netti, slabbrati ai bordi, dalle scapole in giù, dove ancora sgorgava del sangue denso e vermiglio. Una donna, la saggia guaritrice del villaggio, cercò di tamponargliele come meglio poteva e intanto recitava parole antiche, sconosciute. D’un tratto, la ragazza spalancò gli occhi e atterrita dalle sagome che la circondavano si mise a urlare.

Pianse lacrime nere, calde, che fecero sfrigolare la pelle, alla vista delle quali i cinque umani inorridirono.

– Riportatemi indietro! – gridava come un’ossessa. – Riportatemi indietro!

Ma nessuno si muoveva e la voce che solitamente le rimbombava nella testa tornò a farle visita. Ecco il tuo prossimo sposo, mia bambina. Il suo nome è Vincent e tu lo attirerai a te. Non voglio, avrebbe voluto sbraitarle contro. Mi rifiuto di obbedire al destino. La voce le lesse nel pensiero. Ricordati chi sei, Mortisia, e per cosa sei votata. L’amore non appartiene a chi toglie il respiro della vita. Sottomessa, così, ancora una volta alla triste volontà del fato, ridiede inizio al suo mortale gioco.

La ragazza di Irma appartiene ad una dimensione onirica e leggera… ma basta poco a trasformare un sogno in un incubo…

Sogno in catene

Un soffio di vento le accarezzò il viso.

Era giunto il momento, come ogni sera, quando apriva lentamente gli inconfondibili occhi: uno blu e uno verde e congiungeva le mani alzandole lentamente verso il viso. Lo stesso vento leggero e caldo la investiva. I suoi capelli guizzavano in aria come lingue di fuoco e poi all’improvviso ricadevano morbidi sulle spalle, confusi.

Il lungo vestito che portava si gonfiava in mille pieghe che girarono a ruota. Poi si fermavano.

A mezz’aria compariva il Lyfren, il pennello magico che con l’oro del suo manico, mandava riflessi tutt’intorno. 

Lo afferrava e lo stringeva tra le mani. Una musica lenta, leggera e melodiosa prendeva a suonare investendola con le sue note. Le sue mani guidavano il pennello che senza intingersi in alcun colore dipingeva l’aria. Il pennello le ondeggiava in mano e le sue setole morbide disegnavano scie di colori intorno a lei.

Volteggiava luminosa, a passo con la musica, dirigendo in quella danza anche il suo pennello.

Immagini e scene riempivano il vuoto intorno a lei. Scene gioiose, allegre, ma anche macabre e orrende ognuna con un destinatario preciso.

E così lei creava i sogni.

I suoi dipinti confluivano nelle menti delle persone ignare di tutto che si lasciavano cullare dall’onda dolce e rassicurante del sonno.

Tutto come accadeva sempre, ogni sera, all’imbrunire. Era un’azione solita. Ma quel giorno no. Quella sera nessuno avrebbe sognato più nulla, o almeno cose dolci e belle. Perché lei non sarebbe stata lì ad impugnare il pennello e a danzare.

Quella sera lei purtroppo era confinata lontano.

Con il busto piegato in avanti piangeva sommessamente con il capo chino; i capelli che le ricadevano in grossi grovigli su entrambe le guance. Le braccia tese all’indietro e bloccate al muro da grosse catene, erano ricoperte da una patina argentata, e il suo bellissimo abito di seta a pezzi.

A terra in una piccola pozzanghera, formatasi dall’acqua che penetrava dalla grata sulla sua testa, c’era ciò che restava del suo pennello, un solo crine, quasi invisibile.

Pioveva sul suo capo, si sentiva fradicia, ma per quanto cercasse di invocare aiuto, nessuno poteva sentirla, rinchiusa com’era tra quei muri grigi e spenti che si chiudevano intorno a lei come braccia nel tentativo di afferrarla e di impedirle di fuggire.

Ma lei sapeva che in qualche modo ce l’avrebbe fatta.

Strinse gli occhi e ricacciò le lacrime. Presto sarebbe tutto finito. Doveva solo stringere i denti e resistere, trovando la forza di farlo in un pensiero che l’avrebbe rincuorata. Presto gli occhi, uno verde e l’altro verde, di colui che era destinato a prendere il suo posto, si sarebbero aperti alla verità e avrebbe affrontato la pericolosa missione, cercando di rimediare lì dove lei aveva fallito: distruggere Incubo.

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Scontri…

scritto il luglio 15th, 2010 da alphabetcity

Prima di salutarvi e di darvi appuntamento a domani vi lasciamo con due racconti un po’ particoalri che, ognuno a suo modo, ci offrono un punto di vista fantasioso sugli scontri.

 

Andrea ci racconta come è nato uno tra i fiori più belli del mondo…

 

Silfio e Rosa

Le nuove anime nacquero, come sempre, nell’angolo più buio dell’universo. Apparvero subito come luci delicate, poi presero ad ingrandirsi trasformandosi, come migliaia d’altre anime prima di loro, in stelle. Per accedere a quel paradiso che era la Terra, dovevano prima superare il cielo.

La loro vita futura sarebbe dipesa dalla loro condotta presente. Il sacro Consiglio Celeste avrebbe deciso le sorti di tutte.

Rosa e Silfio, nate lo stesso giorno, avevano vissuto come stelle per lo stesso periodo.

Silfio splendeva di notte e riposava di giorno, come una buona stella dovrebbe fare. Se sulla Terra c’era nebbia brillava più intensamente, se la Luna era calante sfavillava con delicatezza… era, insomma, una stella modello.

Rosa, al contrario, brillava quando le pareva. Dormiva fino a notte inoltrata e la sua luce si accendeva ad intermittenze.

Le sorti delle due anime parevano scontate ma, per un errore burocratico, non fu così.

Rosa, una volta sulla Terra, si ritrovò a doversi prendere cura di un corpo umano, mentre Silfio si ritrovò nel corpo di un arbusto simile ad un grosso finocchio.

Rosa divenne una fanciulla di rara bellezza e tutti gli sguardi erano per lei. Silfio non veniva mai considerata. Rosa si divertiva, Silfio si disperava e covava odio.

Che senso aveva avuto splendere così tanto, rispettare tutte le regole, aiutare la Luna ad apparire sempre bella, se poi si veniva così ripagate? Molto meglio fare come Rosa! Divertirsi sia prima che dopo, tanto…

 

Un giorno, mentre Silfio si disperava, le passò davanti una strana creatura. Sembrava una formica, ma era più grossa e più bella. Aveva delle antenne luminose e profumava di lavanda.

“Buongiorno” la chiamò Siflio.

“‘giorno” rispose, indifferente, l’esserino.

“Cosa siete?”

“Ma ovvio! Sono una fata!”

“Una fata?”

“Sì!”

“E cosa sarebbe una fata?” chiese incuriosita.

“Beh, potremmo riassumere dicendo che sono una creatura magica.”

“Oh! Davvero?”

“Sì.”

“E potresti esaudire i miei desideri?”

“Sì, potrei.”

“Bene!”

“Ho detto che potrei, non che lo farò!”

Silfio, delusa, incominciò a piangere. Pianse così tanto che la fata fu costretta a promettere di aiutarla.

“Io voglio scambiare il corpo con quello di Rosa!” dichiarò decisa Silfio.

“E chi è Rosa?”

“La ragazza più bella del villaggio.”

“E sei sicura di questo tuo desiderio?”

“Sicurissima!”

Allora la fata chiuse gli occhi, si sfregò le mani e, in un istante, Silfio si ritrovò nel corpo di Rosa e Rosa nel corpo di Silfio.

 

Silfio non era mai stata così contenta. Tutti la ammiravano, le portavano doni e la trattavano come una regina. Passava le giornate promettendo baci in cambio di favori e le serate ballando fino a notte fonda. Durante uno di questi balli, si presentò un cavaliere mai visto prima. Era alto e molto affascinante.

“Finalmente vi ho trovata!” disse il ragazzo.

“Mi cercavate?”

“Sì.”

“Perché sono bella?”

“Sì, perché siete bella… e lo siete ingiustamente.”

“Cosa?” Silfio si bloccò di colpo.

“Voi, Rosa, avete ricevuto questo corpo per errore e io sono qui per porre rimedio!”

“Come?”

“Non fate la furba! Siete stata una cattiva anima e siete stata premiata col corpo che spettava a Silfio. Il Consiglio Celeste mi ha mandato qui per effettuare il cambio.”

“Il cambio?”

“Sì.” E non ci fu più tempo di parlare, perché Silfio venne trasformata in un fiore dai petali rossi, mentre a Rosa, scambiata per Silfio, venne donato un corpo umano.

“Siete ancora troppo bella!” concluse, andandosene, il cavaliere.

 

Per Marianna, invece, lo scontro e la lotta sono un vero corpo a corpo senza esclusione di colpi.

 

Un’intima lotta

 

Corro, non so più da quanto tempo, schiava e naufraga dell’oscurità. Ho completamente perso il senso del tempo e dello spazio. La mente lascia spazio a un unico pensiero, distruggere l’Ombra.

La mia spada risplende di una luce sinistra e avida di sangue. Poi, il nero che mi circonda si schiarisce. Un tempio. Possenti colonne mi accerchiano, e mattonelle scure, sbiadite dal tempo e dalla polvere. Solo aria intrisa di fumo si infiltra tra le colonne ornate di fregi antichi. So che è lì, mi aspetta ed è pronta ad annientarmi. Lei intanto mi squadra, con i suoi occhi fatti di inconsistenza, confusi con il suo corpo, un corpo che non è null’altro che un’ombra, una massa scura dai contorni a me più che familiari. Sono i miei lineamenti. Ha la mia altezza, le stesse orecchie appuntite, gli stessi fluidi capelli.
È la parte oscura di me, quella che mi rode come ruggine, un parassita che mi induce lentamente alla follia. Devo combatterla e spezzare il filo che ci lega.   

È seduta su un trono di pietra logoro e consunto, pieno di crepe che mi ricordano la mia lotta di scacciarla, le notti passate insonni cercando di liberarmene. Ma lei è ancora lì. Si alza e muove qualche passo verso di me. Una quiete opprimente cala sulla sala, la battaglia attende di essere combattuta.                

 

 

Cominciamo a lottare, ma lei è abile, almeno quanto me e schiva i colpi, quasi come un fulmine. Ci scontriamo ancora, in successioni di colpi davvero allucinanti, ma la situazione non cambia. Siamo troppo simili. Eppure lei è un’ombra, ha l’oscurità nelle sue mani, un potere tanto grande quanto fasullo, perché fatto solo di paure e rancori…Ma perché non se n’è servita? Mi faccio una domanda quasi illogica, e subito l’Ombra davanti a me si mobilita, la lama nera della sua spada si conficca al centro della mia fronte diafana e la trapassa.

 

Non urlo, ma dopo qualche secondo le palpebre mi si chiudono pesanti e cado in un’altra dimensione, in un oblio scuro e senza fondo. Un senso di freddo comincia a spandersi nel mio corpo come un serpente. Tremo. Poi qualcosa esplode e un rumore acuto nella testa mi fa riaprire gli occhi :mi trovo in una bolla di vetro e intorno a me c’è solo un turbinio di immagini sfocate, elfi, boschi, mare, angosce, paure, morte. Vari eventi rievocano la mia vita dolorosa, quella a cui sono riuscita a scampare con difficoltà. A ogni ricordo riaffiorano i sensi di colpa. Mi lascio vincere da tutto e mentre il turbine di immagini ancora mi accompagna in un viaggio senza fine appare come in flash l’immagine di un’ombra. L’Ombra. Adesso ricordo tutto. Questo è il suo gioco e io la sto assecondando, sto morendo per lei. Non riuscirò a salvare nessuno, renderò solo inutile il sacrificio di mio padre.

Non posso far vincere l’Ombra.

La bolla nella quale sono rinchiusa si rompe e dal mio corpo prende ad irradiarsi una luce bianca. Non so da dove viene, ma è la fonte del mio coraggio riacquistato. Tutto scompare, e in un attimo ritorno nel tempio. L’Ombra, si dimena, infuriata, sconfitta. Mi avvicino e gli conficco nel petto la spada. La luce bianca investe anche lei e spezza il suo corpo come un vaso di cristallo, schegge nere volano ovunque e si dissolvono come fumo. L’Ombra è sconfitta. Mi sento nuovamente troppo debole per stare in piedi ed esultare. Le ginocchia cedono e si piegano. La testa riprende a girarmi, mi distendo. Sprofondo in una dimensione diversa, strana, sono pervasa da un senso di soddisfazione. Sono felice. Mi perdo in quest’atmosfera di pace e tranquillità. In essa mi crogiolo per attimi interminabili…

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Uno sguardo malinconico come quello di Sofia…

scritto il luglio 15th, 2010 da alphabetcity

Questa volta sembra che la vostra fantasia sia stata colpita da un sentimento simile a quello che a volte attanaglia Sofia… una malinconia che non sempre è dolce…

Così Cristina ci racconta una favola dietro la quale si cela un insegnamento importante per la vita…

Il folletto veritiero

Il viso di Derek le riapparve per come l’aveva visto la prima volta, quando scappata dal palazzo voleva andare a giocare in riva al fiume, poco le importava se a sera si sarebbe presa una bella strigliata dalla governante, voleva divertirsi e l’avrebbe fatto! Con sé portava come sempre Mensy il suo folletto veritiero. Lo zio di Alina lo aveva portato da uno dei suoi viaggi, era un bottino di guerra, appartenuto ad un grande regnante ed era ovviamente parso un degno regalo per la principessa Alina, futura regina di Cares.

Una volta raggiunto il fiume Alina decise di fare il bagnetto al suo piccolo Mensy il quale non parve affatto gradire, sembrava molto infreddolito ma a lei la cosa divertiva e ignorò il disagio del suo piccolo amico.

<<Hey, perché non gli chiedi se gli piace? I folletti veritieri non possono mentire giusto?>>  Si voltò di scatto e dietro di sé vide un ragazzino che la stava osservando da un’altura.

<<Come osi rivolgerti in questo modo alla tua principessa? Straccione!>> Alina era furiosa, non amava essere contestata, forse era per questo che la lista dei suoi amici si riduceva ad un folletto che parlava solo se interrogato…

<<Se davvero sei una principessa dovresti preoccuparti del bene di chi dipende dalle tue decisioni e non mi pare che quel folletto sia contento del trattamento che gli stai riservando. Non vedi come trema poverino?>>

Dovette ammettere che il ragazzo aveva ragione, Mensy stava tremando tutto, lo tirò fuori dall’acqua sentendo una strana sensazione alla bocca dello stomaco, voleva credere fosse rabbia ma assomigliava preoccupantemente alla vergogna.

<<Vieni, andiamo al sole o si prenderà un raffreddore poverino.>> Il ragazzo le stava porgendo la mano, l’aiutò ad alzarsi e l’accompagnò in una radura oltre gli alberi dove il sole scaldava dolcemente la pelle e dove Mensy asciugò in breve tempo. Senza nemmeno rendersene conto la ragazza si trovò a ridere alle battute del suo nuovo amico, Derek era il suo nome, si era presentato poco dopo averla fatta sedere sull’erba.

Da quel giorno ogni volta che poteva Alina scappava dal palazzo per andare sulla riva del fiume dove sapeva di trovare Derek, insieme a lui si divertiva davvero, un giorno lui la portò anche a vedere dove abitava, una piccola casa ai bordi di un campo poveramente coltivato, volle tenersi a distanza, forse si vergognava della sua povertà.

Ma davvero i sudditi di suo padre erano così poveri? Alla corte cibo e leccornie non mancavano mai e poco oltre le mura la gente viveva a stento.

 

Un giorno…

<<Sai dovresti trovare il coraggio di chiederglielo>>  Derek era seduto su un tronco d’albero abbattuto da un fulmine e la stava guardando con occhi stranamente tristi.

<<Cosa? E a chi?>>

<<A Mensy, dovresti chiedergli se è felice di stare con te… e dovresti chiedergli chi sono io>>

<<Io lo so chi sei, Derek il mio migliore amico! Ed è ovvio che Mensy sia felice di stare con me, abita in un grande palazzo ed è il folletto di una futura regina!>>

Quel giorno Derek la lasciò presto dicendo di dover aiutare suo padre nei campi. Alina rimuginò a lungo sulle parole dell’amico, alla fine non resistette e rivolse a Mensy le due domande, <<Derek è morto anni fa, ucciso dai soldati di tuo padre perché pescava al fiume del re per vendere pesce al mercato. E sì, io sono infelice qui con te.>>

Alina sentiva le lacrime scendere calde sulle guance osservando Mensy che si allontanava felice, avrebbe sempre portato nel cuore il ricordo di un folletto ed uno spirito che le avevano insegnato che il bene più grande per una regina è essere amata dai suoi sudditi.

Valeria, invece, trova il coraggio di affrontare il dolore anche nei sogni…

Nelle acque del patimento

Ognuno di noi, si aspetta di vivere esperienze straordinarie, che lascino un segno indelebile nella propria anima. Quando però, non lo sono, comprendi che la strada non è sempre spianata ma piena di buche. Ci sono poi, quelle troppo dolorose, che vuoi sigillare in uno scrigno in fondo al cuore, giurando che mai sarebbe stato aperto.

Così avevo fatto, da quando era successo. E pareva funzionare fino a qualche notte fa. In un sogno che appariva tranquillo, l’acqua iniziò a filtrare attraverso i muri, dalla fessura della porta, da sotto il letto.  Più lo rigettavo, più l’incubo voleva riemergere. Fu allora che la vidi, aprendo gli occhi. Era lì, sostava sul petto. Non si muoveva, non un vibrare d’ali. Una farfalla, d’un nero intenso. Inquietante ma bella a tal punto da non riuscire a distogliere lo sguardo. Andai per toccare le ali vellutate, ma volò via.

Senza pensare corsi fuori. Stavo cercando una farfalla? Assurdo per quanto potesse essere, cresceva il bisogno dentro di me di vederla ancora. Un profumo intenso di rose m’indusse a volgere lo sguardo alle mie spalle. Seduto sul muretto, un ragazzo stava in silenzio. Lunghi capelli neri contornavano il viso pallido. Occhi che brillavano con la luce della luna.

 

Si alzò e mi venne incontro. Sussultai quando mi sfiorò con tocco delicato la guancia.

– Lascia che mi nutra del tuo dolore, ne ho bisogno. Dammi ciò che desidero e andrò via.

Nonostante quelle parole avrebbero fatto scappare chiunque, io restai. Era un’attrazione pericolosamente intensa, ma volevo goderne ogni istante. Una folata di vento si levò all’improvviso, quando riaprii gli occhi, era scomparso.

Delusa, tornai a letto. Avvolta nelle lenzuola, non tardai a entrare nel mondo onirico dove in una piazza, il silenzio regnava sovrano. Vagai, in cerca di aiuto fino a entrare in una chiesa, non una qualsiasi ma il riparo durante le assidue liti dei nostri genitori. Fermandomi per riprendere fiato, mi accorsi dell’acqua che sgorgava dalle fughe del pavimento.

– Cosa vuoi? – urlai spaventata – Che ricordi tutto? Non posso!

– Giochiamo a nascondino – disse una voce che non sentivo da sei anni.

– Chiara?

Agitava la mano, invitando a seguirla. Lo feci, anche se non volevo al tempo stesso. Fino a giungere sul retro, dove, oltre il buco nella recinzione, scorreva un fiume.

– Non nasconderti lì, è pericoloso – avvertii.

Un urlo insopportabile si elevò, accorsi senza pensarci due volte rivivendo la tragedia. Avevo dieci anni quando accadde, Chiara solo sei. Toccava a me proteggerla, ma, anche se mi tuffai, fallii nel tentativo. Era morta, ed io, l’avevo lasciata all’Ade.

Potevo ora salvarla? Era una seconda possibilità? Mi tuffai alla sua ricerca e vidi la manina che si allontanava. Nuotando oltre le mie capacità la toccai. Una luce intensa mi avvolse, trasmettendo un piacevole tepore.

– Va tutto bene, Sara. Non è colpa tua – mi baciò sulle labbra prima di scomparire.

 

Destandomi dal sogno, in lacrime, trovai quella piccola creatura sul petto. Allungando la mano questa volta non fuggì ma salì sul mio indice.

– Grazie qualsiasi cosa tu sia, mi hai liberato. Adesso anch’io posso volare – tesi il braccio e volò via, fuori dalla finestra, immedesimandosi con l’oscurità della notte.

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Fuoco e aria in due racconti…

scritto il luglio 14th, 2010 da alphabetcity

In questo caldo, caldissimo, pomeriggio estivo vi proproniamo di riscaldarvi ancora di più con il furore della battaglia contro il Signore del fango immaginata da Tomas  e poi respirare la freschezza della visone  creata dalle parole di Cesare, l’ideale da leggere al tramonto.

Dunque tutti pronti ad impugnatre le spade…

Vargo

Finalmente, per la vita di Vargo era giunto il momento della svolta. L’orda  nemica in lontananza ricopriva quasi per intero le sconfinate Paludi di Fango, il luogo dell’ultima battaglia. Inevitabilmente, il ragazzo pensò a tutto quello che gli era accaduto negli ultimi mesi prima di ritrovarsi al capo di un esercito di ribelli insieme a quelli che erano diventati i suoi più fedeli compagni: Alibel, Leofer, Alia e Nernel.

Tutto aveva avuto inizio una fresca mattinata di inverno, mentre Vargo  era in giro per i boschi circostanti la piccola città di Araval con la sua migliore amica Alibel. I due avevano subìto l’attacco di una dozzina di mostri simili ad orchi, ed erano scampati  da una morte certa grazie al vecchio stregone che viveva nella foresta. Questi poi aveva spiegato a Vargo e Alibel che quelle creature erano gli emissari di Caster, il signore di  Fango che, dalle paludi di Fango del sud-est, stava cercando di creare un potente esercito per riuscire ad avere il dominio totale sulla terra di Buckringor. Non a caso, infatti, egli aveva fatto uccidere i quattro più potenti sovrani del Nord, dell’Ovest, del Sud e dell’Est e tutti i loro familiari per riuscire più facilmente nel suo intento. Tuttavia, spiegò loro lo stregone, i quattro legittimi eredi erano stati fortunatamente messi in salvo in modo da fornire in futuro una resistenza contro Caster. Occorreva quindi partire subito  per ritrovare i Conti e porre fine alla sete di potere del signore del Fango.

Durante il viaggio per la terra di Buckringor, Vargo ed Alibel avevano scoperto che uno dei conti, quello dell’ Ovest, altri non era che lo stesso Vargo, e avevano recuperato il conte del Nord, Leofer, e le contesse dell’ Est e del Sud, Alia e Nernel. Successivamente, dopo aver stretto alleanza con i popoli delle montagne e delle foreste, i quattro Conti erano riusciti a mettere in piedi un esercito capace di fronteggiare Caster.

Ora si trovavano tutti lì, davanti alle paludi, assaporando gli ultimi momenti di calma prima del giro di boa delle loro vite. Nel  cuore, Vargo aveva un’ enorme voglia di vendicarsi per tutto ciò che aveva subito la sua famiglia affiancata dalla paura di non riuscire a sostenere quello che sarebbe accaduto di lì a poco.

Voltandosi, vide il terrore negli occhi dei guerrieri che lo accompagnavano. Era giunto il momento di spronarli con parole di cui nemmeno lui era tanto sicuro, ma che sicuramente avrebbero fatto effetto sugli animi di quegli uomini costretti da un giorno all’altro a partire verso morte certa.

Cercando nel profondo del cuore le parole migliori, disse con tono deciso ai suoi guerrieri:

“Uomini, né io né voi avremmo voluto essere qui oggi. Avremmo preferito probabilmente restare a casa dalle nostre mogli, giocare con i nostri bambini o andare a caccia con i nostri amici. Eppure, è proprio in nome di ciò a cui abbiamo rinunciato che siamo arrivati fino a queste paludi a fronteggiare questo esercito. Un esercito che, se avesse il sopravvento, distruggerebbe le nostre case e farebbe strage delle nostre famiglie. Vi invito, guerrieri miei, a combattere con quanto più amore serbate nel cuore verso ciò che vi è più caro e che vi aspetta alla fine di questo terribile giorno. Pensate a questo mentre sarete laggiù. Mi fido di voi e delle vostre spade. Ed ora… Carica!!!”

Ed ora è il momento della visione celestiale di Cesare, di cui segnaliamo il blog: http://trarealtaeillusione.blogspot.com/

Fireflies in a jar [Aspetta, fanciulla dalla maschera di farfalla]

Sdraiato sul davanzale della finestra, osservo, fuori, le tenebre che avvolgono la campagna intorno. Gli alberi si muovono lenti e il leggero fruscio delle foglie sembra una serenata alla luna. Alzando gli occhi verso il cielo vedo infinite stelle che brillano flebili, occultate dalla luce lunare. L’odore della brezza estiva ferma lo scorrere del tempo. Sento un pizzicore all’indice e noto una flebile luce che pulsa, docile. Una lucciola. La osservo e sorrido, ma pochi istanti dopo prende il volo e scompare, senza salutare.

***

Credo di essermi addormentato. Adesso sono in una piccola radura, appoggiato ad un tronco d’albero. La corteccia ruvida pressa sui miei palmi, mentre alle orecchie arriva lo scroscio delicato di un piccolo rivolo d’acqua che, quasi immobile, riflette una figura angelica e lucente adagiata sulla sua riva. È un’incantevole fanciulla; sulla parte destra del volto indossa una maschera a forma di farfalla, decorata con piume policrome che, soavi, le avvolgono parte del volto. Strabuzzo gli occhi e noto che piccole luci le volteggiano intorno leggiadre. Lucciole. Muove le mani nell’aria, sembra giocare con i piccoli insetti sfolgoranti, perché sorride. Un sorriso serafico, che mi paralizza e mi purifica al tempo stesso.

Le gambe mi tremano alla vista del quadro etereo che ho davanti. Prego che non sia un sogno e, mosso da un sentimento che non conosco, muovo un passo. Un ramo però si spezza sotto il peso del mio piede e, con lui, la perfezione della scena. Lo spirito celeste si accorge della mia presenza. L’ho spaventata.

Lei si alza con grazia e maestosità e inizia a correre, inesorabile, verso la radura.

«Aspetta» proferisco. Ma la fanciulla non si ferma.

Salto il rivolo d’acqua e mi addentro nella foresta; la vedo, perché emana una luce aranciata che fa fuggire le tenebre. Le foglie cadute sul terreno, non scricchiolano, ma mi sembra quasi di sentirle tintinnare al suo passaggio, grate di essere toccate dalla fanciulla. D’un tratto riesco a scorgere la parte scoperta del suo volto e mi accorgo che il sorriso non è andato via, è ancora lì, ammaliante, gaio. Lei mi sta guardando con il suo sguardo pieno di tutto l’universo. La sua iride si muove densa, volubile, come fuoco liquido. Le ciglia più lunghe del normale fanno illudere la mia vista, confondendola. Sta giocando, ancora. Libra veloce tra gli alberi secolari e non riesco a stare al suo passo. Rallento fino a fermarmi. Sono stordito dall’essere celestiale e poco a poco il suo alone di luce scompare nella tenebra. L’ho persa, per sempre.

Una lacrima mi riga la guancia, e una mestizia profonda mi avvolge. Non so perché ma sento che la fanciulla dalla maschera di farfalla è l’essenza più preziosa del mondo. Ne ho bisogno, ma non come si ha bisogno dell’acqua o del cibo. È qualcosa di immensamente più profondo.

***

Il risveglio è violento, quasi traumatico. Mi ritrovo sulla finestra, di nuovo, tristemente. Ricordo ogni particolare del sogno e voglio catturarlo. Subito. Prendo il quaderno e la matita che ho accanto e inizio a disegnare la fanciulla, meglio che posso, alla luce selenica. Un’emozione prorompente e irrefrenabile mi colma il cuore. Poi un soffio di vento mi accarezza il volto e porta con sé qualcosa che si posa sul foglio su cui sto disegnando. Una piuma arancione, sulla cui punta c’è una lucciola. Qualche istante dopo la lucciola riparte verso la radura vicina e stavolta la seguo con gli occhi. Si dirige verso una luce calda e riposante, fra gli alberi. Poi scompare anche quella. Sono felice.

Perché i miei sogni stanno facendo esplodere le cuciture.

Cosa ne pensate?

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Doppietta per farmi perdonare dell’assenza!

scritto il luglio 14th, 2010 da alphabetcity

Bentrovati ragazzi drago, prima di cominciare con i racconti di oggi un paio di precisazioni su questo contest: visto che ci avete SOMMERSI di racconti nell’ultima settimana disponibile per inviarli (Grazie! Grazie! Grazie!), ci vorrà ancora qualche giorno prima che riusciamo a pubblicarli tutti e quindi ad annunciare la fortunata cinquina; questo, ovviamente, vuol dire che anche il secondo contest, di cui potrete trovare qualche indizio sul mio FB (http://www.facebook.com/?ref=home#!/profile.php?id=100000057342628), slitterà di qualche giorno!

Ma ora è il momento di lasciare spazio a due vostri racconti accumunati da un titolo che ha a che fare con la perdita totale della memoria, di sé stessi, con la cancellazione del ricordo… in una parola? Con l’oblio!

Ecco l’affascinante racconto di Dania…

Oblio

Quegli occhi. Sono bloccata da quegli occhi. Non riesco a distogliere lo sguardo, tutto quello che ho intorno ormai non conta più. Non mi accorgo degli alberi che sembrano toccare il cielo che tanto adoro, non mi accorgo che le creature incantate sono sparite tutte insieme, del silenzio che cala improvvisamente.

Se non fossi bloccata dentro quegli occhi forse capirei di trovarmi in pericolo, ma non me ne rendo conto. Sono immersa completamente dentro quegli occhi, verdi, come il prato immenso in cui mi ritrovo a correre. Intorno a me volano tanti uccelli screziati, e affondo i miei piedi tra fiori variopinti.  Improvvisamente di  fronte a me appare una casa, ad un piano solo, simile ad un mulino ad acqua, fuori si trova un bambino, avrà non più di 10 anni. Non riesco a vedergli il viso, ma questo stranamente non mi preoccupa. Ha i capelli castano scuro. Lo seguo senza esitare dentro la casa. I miei occhi si abituano velocemente al cambio di luce, la stanza è spoglia, dentro ci sono solo un tavolo e due sedie. Mi accomodo su una delle sedie, mentre il bambino si siede sull’altra, di fronte a me.

Non mi sembra per niente strano il fatto che continui a guardarsi le scarpe.

Piano piano, mi sento strana. É come se mi entrassero dentro delle informazioni, come se il bambino me le stesse trasmettendo.

Piano piano, comprendo. Capisco chi è quel bambino e come mai mi trovo in quello strano luogo. Dentro di me iniziano a propagarsi immagini, non mie, di luoghi strani, per niente simili a quelli da me conosciuti; di persone, che non ho mai visto in vita mia; di animali, di un altro mondo.

Perdo la percezione del mio corpo. Sono inebriata da tutto questo che mi ruota intorno. Non riesco più a percepire dove finisce il mio corpo e dove inizia quello delle persone delle immagini che mi trovo dentro.

Ancora poco e non riuscirò più a tornare in me.

Poi, sento qualcosa, del calore, inizialmente non riesco ad individuare dove, poi sento la mia pelle, mi rendo conto che è il mio braccio, riesco ad avvertire il busto, la testa, il bacino, le gambe. Torno di nuovo nel mio corpo. Il calore si espande in me, con il recupero dei miei sensi. Tutto quello che mi aveva inebriato, inizia a scomparire, riposto in un angolo remoto della mia mente. Sono di nuovo padrona di me, ma ora sono le forze ad abbandonarmi. Cado nel buio profondo del sonno.

Apro gli occhi. La casa è sparita, il bambino è sparito, così come il prato e i colori. Davanti a me ci sono solo quegli occhi. Mi rendo conto di non essere mai stata in quel luogo, è stato solo un’illusione, causata dal colore verde intenso di quegli occhi.

Questo, finalmente, mi spaventa e distolgo lo sguardo. Ora posso osservare la persona che mi sta di fronte. Oltre agli occhi verdi, sui quali cerco di soffermarmi il meno possibile, noto che è un ragazzo. Ha dei capelli castano scuro e mi sembrano famigliari.

Ho un giramento di testa, ma riesco a mantenere l’equilibrio senza far notare nulla al ragazzo.

Ci fissiamo per quella che a me sembra un’eternità.

“Chi sei?” gli chiedo finalmente.

“Non c’è bisogno che ti risponda. Lo sai benissimo”

E questo, invece, è quello di Gilbert, che ci porta in un mondo completamente diverso dove la dimensione da sogno lascia il posto all’azione…

La carezza dell’oblio

Se i miei calcoli sono esatti, arriveranno fra un minuto…

Coperta da capo a piedi dal pesante mantello nero, avanzavo guardinga nelle ombre di quel lurido vicolo di Gerusalemme, stringendo al petto l’antico rotolo di pergamena.

Il dado mistico ne ha previsti Sette… – ripetevo fra me i postulati della Kabbalah – Come le braccia del Sacro Candelabro, la Menorah…

Un rumore alla mia destra attirò la mia attenzione. Erano loro, tutto stava andando secondo i calcoli! Come previsto, tre viscide ombre sgusciarono fuori dall’oscurità sulla mia destra. Alle mie spalle apparvero altri due. In tutto, erano cinque assassini vestiti di nero con delle orrende maschere a coprire il loro viso.

– Addio Aaron! – urlò l’insolente mascherato dinanzi a me, scagliando un pugnale all’altezza del mio cuore.

Sapevo che l’avrebbe fatto.

Avevo calcolato al millesimo la traiettoria: feci un agile balzo sul lato sinistro ed evitai di un soffio la letale lama.

– Ma tu…– esclamò il sicario con meraviglia –Tu non sei…

Lo spostamento d’aria aveva fatto cadere all’indietro il cappuccio nero che fino ad allora aveva mantenuto segreta la mia identità.

– Purtroppo no– risposi, posizionando come meglio potevo il rotolo di pergamena nel cappuccio dietro la mia testa, –Non sono il Rabì Aaron. Per cui, se volete scusarmi, andrei di fretta…

– Maledizione! – gracchiò il sicario alle mie spalle – Il vecchio ci ha giocati! Ed ora cosa facciamo?

– Chi se ne frega del vecchio!– disse il sicario che aveva lanciato il pugnale –Levi vuole la pergamena. Getta le armi e vieni avanti con le mani alzate, bellezza…-

Sapevo che l’avrebbero chiesto. Tutto secondo i piani…

Sfilai i candidi guanti che col Sigillo di Salomone avevano fino ad allora protetto le mie mani ed avanzai lentamente verso i cinque. I sicari di colpo ammutolirono, allorché un flebile raggio di sole illuminò le mie mani, che brillarono in tutto il loro accecante splendore. Fra le arcuate nocche e l’esile polso, scintillavano ai raggi solari le quattro lettere del Tetragrammaton, il nome di Dio, sapientemente disegnate con polvere d’oro.

Con un tonfo metallico, le armi dei sicari caddero al suolo. Sebbene le loro maschere non lo dessero a vedere, la luce divina aveva annullato i loro propositi bellicosi e le loro anime vagavano ora felici in un limbo di beatitudine. Li accarezzai uno ad uno, pregando il signore che dimenticassero i loro cattivi propositi e che d’ora in avanti conducessero una vita improntata alla rettitudine.

Reinfilai i guanti e mi guardai attorno: nessun’altra minaccia sembrava essere presente nel vicolo. Ricontai i sicari: erano sempre cinque.

Eppure, il dado mistico ne aveva previsti sette… Com’era possibile tutto ciò?

Improvvisamente, un forte tonfo alle mie spalle mi fece trasalire. Mi voltai, e con mia grande sorpresa notai due figure in più accasciate per terra. Erano quel farabutto di Levi e suo figlio. Guardai in alto: di sicuro erano sul malfermo cornicione decine di metri più in alto, ed ora, sommersi nell’oblio, avevano perso l’equilibrio. Il terreno sotto di essi, pian piano, si stava tingendo di rosso.

Il dado mistico aveva ragione… Ed io che ero arrivata addirittura a dubitare dei sacri insegnamenti!

Giunta alla fine del buio vicolo, mi voltai indietro per l’ultima volta.

– Sarò capace – domandai a me stessa, frugando nella bisaccia appesa alla mia cintura – di non cedere alla tentazione dell’oscurità? Riuscirò a rimanere per sempre nella strada che conduce alla luce?

Il dado mistico mostrò il suo risultato, avvolgendo anche il Sigillo di Salomone con la sua luce azzurra: zero.

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Cosa c’è in soffitta?

scritto il luglio 9th, 2010 da alphabetcity

In soffitta ci sono: cianfrusaglie, vecchi mobili, le foto della mamma quando andava all’asilo, il baule della nonna… oppure???

Chiedetelo a Marilù, il suo racconto offre un’alternativa niente male!

Sotto il tetto

La luna filtrava debolmente dalla finestra socchiusa, inondando di un lucore lattiginoso le lenzuola ammassate in un angolo del letto.
Astrid sedeva immobile, le mani premute appena sul materasso rigido; i suoi limpidi occhi verdi erano concentrati su un punto indefinito del soffitto buio, lì dove le travi di legno si intrecciavano sinuose a formare il sottotetto della stanza.
Pressoché impercettibile, uno scricchiolio composto risuonò nel silenzio. Lo sguardo della ragazzina si fece più intenso, mentre gli zigomi, le labbra e la curvatura della bocca si increspavano in un’espressione quasi famelica.
Si erano svegliati, finalmente.
Felpata come un gatto, Astrid si alzò. Nonostante i muscoli irrigiditi dal nervosismo, riuscì ad arrampicarsi sulla sedia senza sforzo e da lì a salire sulla scrivania; un unico cigolio della trama di noce tradì i suoi movimenti, e per un attimo il sommesso rosicchiare proveniente dal soffitto si interruppe.
La ragazza trattenne il fiato, immobile come il marmo; passarono alcuni minuti prima che gli occupanti del sottotetto appurassero che era stato un falso allarme e si decidessero a riprendere le loro attività, in un frullio di ali metallico. Astrid espirò, gli occhi socchiusi: grazie al cielo non si erano spaventati. Poi, cercando di non fare rumore, si alzò in punta di piedi ed appoggiò un orecchio alla parete, a circa due metri di distanza dalla tana.
Erano mesi che si svegliava nel cuore della notte, angosciata, ascoltando i sussulti, gli squittii ed il raspare fastidioso di artigli che grattavano il legno. Da un anno lei e i genitori abitavano in quella casa di montagna, vicino al bosco, e dopo qualche mese di silenzio le creature avevano cominciato a farsi sentire.
Astrid sapeva bene cosa fossero; sua madre era convinta si trattasse di ghiri, ma lei… lei, che veniva destata dal sonno, che passava ore ad interpretare i loro movimenti, che spesso era distratta dalla lettura di un libro per colpa di quel raschiare lento ma insistente, si era fatta un’idea molto diversa.
Uno stridio, un verso sibilante risuonò proprio allora dall’altro lato della parete; Astrid sobbalzò per la sorpresa  e calcò il viso contro il legno: non esistevano ghiri che emettessero un suono così sottile e vibrante.
I secondi passarono lenti. All’interno della cavità si udirono schiocchi e artigliate, accompagnati da sibili furiosi. Evidentemente le creature stavano litigando.
Astrid approfittò di quel momento per guardarsi intorno; con la scusa di voler appendere un quadro alla parete, nel pomeriggio – di giorno, quando loro dormivano in attesa della notte – si era fatta prestare il trapano da suo padre ed aveva profanato il legno con un buco di proporzioni abnormi per un chiodo ma non così grande da attirare l’attenzione delle creature.
Ed ora era lì, ad un passo da quella finestrella aperta sulla verità, bramosa si scoprire se le sue congetture fossero esatte.
Con il cuore che le martellava nel petto, mosse un passo verso destra e si alzò in punta di piedi; il foro si apriva in un’oscurità impalpabile, più fitta delle tenebre che aleggiavano sul bosco, più cupa della notte stessa.
Tremando di eccitazione, la ragazzina insinuò l’occhio nel buco, pronta a vedere il nido di quelli che – ne era sicura – non erano ghiri ma pipistrelli.
La sua pupilla ci mise un istante infinitesimale ad abituarsi al buio pesto; poi, Astrid guardò.
Minuscole creature brulicavano nell’ombra, gli occhi di fuoco brillanti come braceri ardenti risplendevano poco lontano da lei. Qualcuna si librava in aria descrivendo archi circolari, qualche altra rischiarava il buio soffiando azzurrine lingue di fuoco; alcune dormivano acciambellate, con la coda arrotolata introno al corpo scaglioso, altre rivoltavano la carcassa di quello che probabilmente era stato un topo.
Un sibilo crepitante risuonò nella tana, mentre una di loro si voltava verso Astrid.
Non erano ghiri e neanche pipistrelli.
Erano draghi.

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